Di buon mattino, con l’assemblea dei deputati forzisti riunita prima del voto, il capo alza il telefono e butta nel cestino l’accordo raggiunto il giorno prima con gli alleati, Giorgia e Matteo: «Noi votiamo a favore dello scostamento. Invitiamo gli altri a seguirci ma facciano come vogliono».

Il solenne impegno a votare tutti allo stesso modo? Cancellato in meno di 24 ore. Dicono che a convincere Berlusconi siano stati a tarda notte Letta e Brunetta. Però già alla vigilia il Cavaliere era stato ben attento a non prendere impegni e nessun forzista si era esposto, a differenza degli alleati. Se davvero sono stati Letta e Brunetta a convincere il Cavaliere non devono aver faticato molto. Dicono anche che essenziale sia stata l’apertura plateale di Gualtieri, mercoledì sera, rivolta tutta e solo a Fi.

Ma quello era palesemente un gioco delle parti ed è difficile credere che simili sceneggiature si scrivano da sole.

Come è difficile, anzi impossibile, credere che Berlusconi non sapesse che le sue parole sarebbero rimbalzate con la velocità della luce sulle agenzie. Più tardi infatti negherà di averle pronunciate: a riprova del fatto che l’età non ha scalfito la sua proverbiale faccia di bronzo.

In tutta evidenza il sovrano azzurro voleva che fosse ben chiara a tutti la distanza dal resto del centrodestra. Non si trattava di forzare la mano agli alleati ma di dimostrare nei fatti che Fi è del tutto autonoma e ben diversa dai due partiti «sovranisti». Un soggetto a sé stante.

Quando arriva la sgradita notizia Salvini s’imbufalisce. Meloni invece tiene i nervi a freno: «A questo punto ci conviene votare tutti a favore e sventare la trappola per dividerci e dimostrare che il centrodestra è spaccato». Sarà proprio lei, infatti, a dichiarare che la manovra della maggioranza è fallita e il centrodestra è rimasto unito. Evviva.

Salvini ci mette un po’ di più ma alla fine si uniforma con posticcio entusiasmo. Fa filtrare la sua «grande soddisfazione» perché il governo avrebbe, a suo dire, accettato le condizioni della Lega grazie all’unità della coalizione mentre «se fosse andato diviso, il centrodestra non avrebbe incassato alcun successo». Chiacchiere.

Il governo ha concesso poco e solo a Fi. In cambio di un voto unanime, con solo 4 astenuti e 4 contrari al senato e 6 astenuti alla camera, non ha neppure offerto al documento della destra un voto per parti separate, tanto per evitare la bocciatura in tronco.

Perché se Berlusconi ci teneva a chiarire che l’accordo con la maggioranza lo ha imposto lui e sarebbe andato avanti con o senza gli altri, la maggioranza, soprattutto il Pd, è altrettanto ansiosa di chiarire che il referente è uno e uno solo.

«Chapeau! – s’infiamma Franceschini – Berlusconi ha politicamente costretto le altre forze di centrodestra a cambiare linea e adeguarsi». Marcucci, capogruppo al senato, lo supera salutando «una sorta di miracolo»: le opposizioni «grazie alla spinta di Berlusconi» hanno votato sì.

Anche il premier, che in realtà è molto meno giubilante degli avversari e avrebbe preferito la prova di forza di uno scostamento approvato dalla sola maggioranza, affida a una nota la sua piena soddisfazione perché è stata imboccata da tutti «la via del dialogo». Ma ringrazia in particolare «quanti la hanno voluta perseguire sin dall’inizio».

Sarebbe ingenuo credere che una manovra tanto clamorosa e sfacciata, messa in atto anche a costo di rischiare l’esplosione del centrodestra, abbia per solo obiettivo il voto, del resto inessenziale, sullo scostamento di bilancio.
L

a realtà è che l’ultima settimana ha modificato profondamente le mappe della politica italiana e reso possibile, non subito ma in primavera, la manovra che il Pd ha in mente da tempo: un cambio di maggioranza, di governo e soprattutto di premier se sarà possibile, un rimpasto radicale che ingessi Conte e gli sottragga la centralità acquisita negli ultimi mesi se il progetto di massima si rivelerà fuori portata.

In entrambi i casi sarebbe necessaria una spaccatura del M5S. I vertici del Pd sono convinti che il grosso delle truppe 5S allo sbando sia ormai pronto a ingoiare tutto pur di evitare le elezioni. Il «casus belli» potrebbe essere proprio il Mes, che pare fatto apposta.

Si spiegherebbe così la decisione del Nazareno di insistere, nonostante il prestito sia oggi meno essenziale e poco vantaggioso, grazie ai tassi in picchiata, di quanto non fosse qualche mese fa e ignorando sia il parere contrario del ministro Gualtieri sia la perplessità del Quirinale.