Se siamo cresciuti come siamo cresciuti è in eguale misura merito di Jean-Luc Godard, di Marx e della Coca-Cola, degli Spaghetti Western e di Linus. Forse anche dei Beatles e dei Rolling Stones. Ma, certo, a dodici anni, quando vidi per la prima volta una striscia di Charlie Brown e mi innamorai perdutamente di Linus e della sua coperta, di Charlie Brown e della sua cuccia, i fumetti erano, assieme al cinema, l’invenzione più grande del mondo.

A quel tempo, i fumetti non si leggevano una sola volta, si rileggeva e rileggevano quasi all’infinito. Come per Topolino o Nembo Kid.

La rilettura era ancora più interessante della lettura. E, per chi era cresciuto, con le storie di Topolino, con le Grandi Parodie di Paperino scritte da Guido Martina e disegnate da quei geni dei nostri illustratori degli anni ’50 e ’60, i fumetti che proponeva Linus e il suo celebre direttore del tempo, Giovanni Gandini, erano davvero un’esplosione da Nouvelle Vague. Le sole strisce che conoscevamo, se non sbaglio, erano quelle di Beetle Bailey, il soldatino col cappello sulla testa. Già adeguare la nostra lettura, topolinocentrica, alla striscia con battuta finale era come passare dai centoventi minuti di un film allo sketch di una tv americana, e leggere le tavole di Copi o di Jules Feiffer era proprio viaggiare e crescere in un mondo inesplorato. Eravamo, tutti o quasi, bravi ragazzini delle elementari e delle medie che andavano a scuola con il grembiulino nero, il colletto duro e il fiocco celeste.

La «diversità» fumettistica, per noi, erano le tavole di Jacovitti sul Giorno o il suo Diario Vitt. O i cartoni animati dei Pagot, della Paul Film e della Gamma che vedevamo ogni sera a Carosello prima di andare a letto.

Ritrovarci Linus a casa con le tavole dell’impiegato Bristow, dei cavernicoli di B.C., i meravigliosi Li’l Abner e Fearless Fosdik di Al Capp, le avventure fantascientifiche di Jeff Hawke, significava davvero crescere in fretta. E i fumetti del passato, per Linus, erano quelli della gatta pazza Krazy Kat, per noi difficilissimi, o i noir stravaganti di Dick Tracy pieni di cattivi deformi e di morti ammazzati. Mentre le storie più «tradizionali» erano quelle dell’opossum Pogo di Walt Kelly, disneyane solo all’apparenza, ma così piene di riferimenti politici. E non avevamo ancora letto le storie, quasi per adulti, di Corto Maltese di Hugo Pratt, della Barbarella di Jean-Claude Forest, le tavole più difficili di Copi e Wolinski.

Devo dire che, personalmente, in quegli anni, amavo tutto ciò che Linus pubblicasse. Era tutto fantastico. E tutto ci faceva crescere con una rapidità che ci sembrava impossibile.

Da bambinetti cresciuti a parrocchia, scuole democristiane e film western, stavamo diventando un’altra cosa. E il fatto che le storie di Charlie Brown aprissero con titolo, copertina e prime pagine, un fumetto così magico, rappresentava un po’ la nostra trasformazione da bambini, più o meno ingenui come Charlie Brown e armati di una sola coperta come Linus, in giovani adulti pronti a saltare sulle astronavi di Jeff Hawke e di Barbarella o a partire per l’Oriente con Corto Maltese.

Ricordo perfettamente certi estati, del 1965 e del 1966, nelle quali le collezioni di Topolino e di Linus non erano affatto rivali, ma rappresentavano un po’ il nostro passato-presente-futuro.

Un mondo disegnato dove tutto era possibile, come i paesaggi mutanti di Krazy Kat, il fumetto di George Herriman che rappresentava forse la punta di diamante di tutto il progetto Linus. Certo, però, se non avessimo trovato fin dalle prime pagine la coperta rassicurante di Linus, forse, non ci saremmo avventurati oltre nella scoperta di Al Capp e Sidney Jordan.

In qualche modo, quella coperta ci permetteva di poter rientrare sempre a casa, di sporgere la testa sul futuro e poi ritornare ai nostri giorni. Non pensando che già da quando hai fatto il passo dell’uscio, come si dice in toscano, il più è fatto.