John Carroll Lynch lo incontro a Locarno. È un uomo solido, con la statura di un orso. Lo riconosco dai tanti film. Il più famoso è Fargo dei fratelli Coen in cui recita Norm, il marito affidabile e simpatico dello sceriffo Frances McDormand. Ma, dall’altro lato dello spettro, è anche il principale sospettato in Zodiac, il serial killer thriller di David Fincher. È in Svizzera per debuttare come regista con Lucky, una meditazione sull’essere mortali con un grandissimo Harry Dean Stanton.
«È incredibile che siano passati 37 anni dall’ultimo ruolo di protagonista recitato da Harry Dean», dice subito. Il film era Paris, Texas di Wim Wenders, ma con Lucky abbiamo non solo una performance mitica ma anche un lavoro semi-biografico. «Gli scrittori Logan Sparks and Drago Sumonja lavorano con Harry Dean da tanti anni. Si sono ispirati alla sua vita. È uno strano miscuglio. È una storia di finzione ma che utilizza pezzi di vita di Harry».
Lucky è un vecchio che vive da solo nella sua casa e segue una routine di sigarette, esercizi di yoga, colazione al diner e serate al bar. Lynch e i suoi collaboratori hanno lavorato a fianco di Stanton per sviluppare il progetto e tante battute sono sue parola per parola, come anche lo Yoga.
Lo fa da anni. Gli esercizi si chiamano le cinque longevità. Non so da dove lo abbia imparato ma lui fa esattamente queste cinque cose, in quell’ordine esatto, cinque esercizi, 21 ripetizioni, da anni».
Tuttavia non è stato semplice convincere Stanton a fare il film alla sua età.
Ha iniziato a leggere il copione, ma a questo punto della sua vita i caratteri devono essere grandi e quindi il copione era enorme, 300 pagine. Avevamo 18 giorni per filmare e lui è presente in ogni scena. L’argomento è forte, emozionante e contempla l’essere mortali per una gran parte del film. A quasi 90 anni, è molto. Ci incontravamo a casa di Harry, lui guardava i suoi quiz show e poi litigavamo sulla sceneggiatura. Alla fine diceva ‘sapete voi come fare’ e andavamo via. Una volta però ha spento il televisore, si è girato verso di noi, litigato ferocemente e alla fine ha detto: ‘abbiamo finito’. Il produttore era preoccupato, ma io ero tranquillo. Per la prima volta il film gli è parso reale e ha cominciato a trattare il materiale da attore guardandolo dritto negli occhi. Io ero emozionato.
Il film vede un ensemble di attori di alta qualità – Ed Begley Jr., Tom Skerritt e Barry Shebaka Henley – popolare un paesino del New Mexico.
Tutti hanno accettato, perché volevano recitare a fianco di Harry. Lui è come un musicista – e infatti lo è – al cui fianco vogliono suonare tutti gli altri musicisti.
Come attore lei prova grande rispetto per Stanton.
Posso dire due cose. Primo, il lavoro. La sua volontà di essere silenzioso in una scena. Io ho avuto un lungo rapporto con la lente nella mia carriera. Quando tocca a te, sessanta persone si girano verso di te, l’occhio nero della macchina da presa viene puntato sulla tua faccia, e ti dicono di  «essere naturale!» In Nick Mano Fredda c’è una scena in cui lui canta che non ha nulla a che vedere con la storia o il personaggio principale, ma esprime lo spirito dei prigionieri. La seconda cosa è la longevità.
Dal 1954 ad oggi Harry Dean Stanton ha accumulato quasi 200 crediti. Stanton è il ‘character actor’ per eccellenza.
Un character actor sa fare il nodo alla cravatta senza uno specchio, perché forse si indossano tre cravatte in un giorno solo. Noi siamo il modo in cui il pubblico sente la realtà del film. Prendi Barry Shabaka Henley in Terminal: è una situazione surreale ma quando  arriva lui noi la percepiamo come reale. Ha interpretato tanti ruoli diversi ma porta sempre realtà, umanità, la misura giusta. Non è un dio. Mi piacciono la Marvel e DC ma sono tutti Dei, dov’è il resto di noi?
Le mancano i giorni dei grandi studios?
Mi piacerebbe lavorare così. Mi piace il lavoro della fabbrica. Quando sono in uno studio, mi sento bene. Ho cominciato in una compagnia teatrale, facevamo Chekov e Shakespeare, andavo al lavoro nello stesso posto ogni giorno. Un senso di esperienza, tempo e competenza. Si dice che per diventare maestro devi fare 10,000 ore. Bene, quando gli studi erano aperti 24 ore su 24 e si lavorava ogni giorno ci si arrivava presto a quelle 10,000 ore. Adesso dobbiamo viaggiare per il mondo e rimediare delle scene. Sicuramente c’erano dei lati negativi, la tua carriera poteva essere distrutta da uno sguardo, non avevi nessun controllo, ma era interessante.
Forse la sorpresa più grande è il regista David Lynch che recita la parte di Howard, il miglior amico di Lucky.
Stavamo cercando un attore per interpretare Howard, mi pare che fosse Sam Shepherd ma alla fine non ha potuto. Poi Harry ha suggerito David. Stava finendo Twin Peaks e non aveva il tempo di leggere la sceneggiatura così la sua assistente gliel’ha letta ad alta voce; ha accettato ma poteva dedicarci solo due giorni. Abbiamo girato le tre scene e con la seconda scena lui voleva questo cappello; gli ho detto di fare senza, ma lui ha detto: ‘Se tolgo il cappello, il pubblico mi riconosce.’ Aveva paura che il pubblico non lo accettasse come personaggio ma lui è così puro, e le sue parole sono così belle. Come Morgan Freeman. Quando lo vedi, pensi ‘c’è Morgan Freeman’ ma poi lui dice: ‘sono un detective’ e tu lo accetti subito. O uno scienziato o Dio!
Parlando di Dio, Lucky sia come film che come personaggio è decisamente ateo. È un film che guarda la mortalità dal punto di vista di un uomo che ha 89 anni ma che non crede nell’aldilà.
Lui è sicuro al 100% che non c’è nessuno oltre. Questa è stata una delle cose che mi ha attratto del film. Solo dal punto di vista drammatico. Dobbiamo tutti affrontare la morte. Ma qui abbiamo un uomo così vicino alla morte che sa che non ci sarà un secondo atto, non ci sarà un Lucky 2. Questa è una circostanza drammatica. Per qualcuno che vuole raccontare storie, la posta in gioco è veramente alta.