Tutti in piedi per Star Spangld Banner. Mano al cuore, pensieri e parole per l’inno statunitense, spingendo indietro eventuali gesti, dimostrazioni anti patriottiche. Che puntualmente nel recente passato hanno varcato il confine della politica. Dalle prossime partite, le nazionali di calcio (contro Honduras e Panama, a fine marzo) degli Stati uniti, maschile e femminile, dalla prima squadra fino alle varie edizioni delle rappresentative inferiori, avranno l’obbligo di onorare l’esecuzione dell’inno nazionale a stelle e strisce.

Dunque, sguardo verso l’alto, gradita anche la recita a memoria del testo: la scelta che è arrivata dalla federcalcio del soccer americano, con norma messa a statuto. Una scelta che fa discutere, ma che segue l’adozione di policy restrittive dello sport americano che prova a delimitare il campo delle possibili reazioni pubbliche degli atleti dell’ultimo anno. Precisamente, dal vento torrido delle violenze della scorsa estate da parte delle forze dell’ordine a danno della comunità afroamericana. Più di una star del basket o football si scagliava contro l’odio verso i neri. E la reazione a catena veniva innescata dal fuoriclasse della National Football League, Colin Kaepernick dei San Francisco 49ers che, dopo le violenze sulla comunità afroamericana, decideva per protesta di boicottare l’inno nazionale – eseguito prima di ogni partita nello sport professionistico americano – piazzandosi in ginocchio. E in un secondo momento restando seduto in panchina, oppure schierandosi al fianco dei compagni di squadra ma con il pugno alzato, imitato da Marcus Peters dei Kansas City Chiefs. Come Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri di atletica leggera, a Città del Messico 1968.

Insomma, anche il soccer cerca di prevenire un’eventuale effetto domino come avvenuto qualche mese fa. Il. Perché sulla scia di Kaepernick e delle altre stelle di Nba, Nfl, anche l’icona del soccer femminile Meg Rapinoe si metteva in ginocchio in un paio di circostanze: lo scorso settembre prima del calcio d’inizio in amichevole contro la Tailandia ma anche nella sua squadra, i Seattle Reign. In entrambi i casi senza l’appoggio della federazione statunitense. Che con l’adozione di questa policy alza un muro – è il caso di scriverlo, considerando il soggetto in questione – contro eventuali gesti contro l’amministrazione Trump, soprattutto in occasione di competizioni internazionali.

E d’altronde il soccer ha solidi motivi per non riempire di elogi il presidente degli Stati uniti. La sua politica anti immigrati rischia seriamente di far perdere agli americani l’organizzazione della fase finale dei Mondiali di calcio 2026. Dalla Fifa nei giorni scorsi è piombata una reprimenda sulla Casa Bianca: se l’ordine esecutivo che congela i visti d’ingresso dei cittadini da sei Paesi a maggioranza islamica, niente Coppa del Mondo stars and stripes, che verrebbe condivisa con Canada e Messico, nel frattempo finito nel mirino di The Donald. E la candidatura degli Stati uniti, con il soccer che cresce, diventa presenza fissa per i tifosi allo stadio e nel tinello di casa davanti alla tv, è stata finora considerata un passo avanti alle altre..