«A che cosa serve lo sciopero, che per lo più è un intervento alla cieca?». Questa perla di saggezza padronale ottocentesca è frutto della penna filopadronale quasi ottocentesca di Piero Ottone. È apparsa il 10 maggio scorso sull’edizione genovese de La Repubblica, a commento di uno sciopero Cgil-Cisl dei travagliatissimi lavoratori del travagliatissimo locale teatro dell’Opera Carlo Felice. Fortuna che il giorno dopo, sulle stesse colonne, Sergio Cofferati, che di musica si intende, spiegava pazientemente a tutti le buone ragioni dell’agitazione. È una vecchia solfa, questa dell’inutilità degli scioperi nell’età della globalizzazione, del superamento delle barriere dei singoli stati, dell’innovazione tecnologica, della fine delle ideologie e delle classi.

Su quest’ultimo punto credo che il successo de Le capital au XXI siècle dell’economista della École des Hautes Études en Sciences Sociales Thomas Picketty magari qualche dubbio può averlo ingenerato anche in chi si ostina a leggere Giavazzi e Alesina invece che guardare nei negozi vuoti di gente e nelle tasche ancora più vuote di soldi della popolazione mondiale. Per la questione degli scioperi, forse bastano le cronache quotidiane, dalle rivolte operaie nel Vietnam del Sud, all’agitazione transnazionale dei lavoratori dei fast food di cui parlava qualche giorno fa il New York Times. Persino l’ex supercantore del «piatto mondo» felicemente globalizzato Thomas Friedman sembra aver ingoiato Karl Marx e, sempre dalle colonne del New York Times, invita l’«uomo di Davos» a darsi una mossa perché «sta arrivando la gente della piazza…una nuova forza globale che sta crescendo da Kiev ad Hanoi per spingere per un più alto standard di vita e più libertà».

Insomma cade molto opportuna la riedizione americana (la terza) rivista, ampliata e aggiornata di un libro che reca la parola «sciopero», con tanto di punto esclamativo, ben piantata nel titolo stesso. È Strike! di Jeremy Brecher, fresco di stampa da PM Press (Oakland, California, pp. 462, 24.95 dollari). Sono passati quarantadue anni dalla prima edizione, nel 1972. Da noi sarebbe stato tradotto cinque anni dopo, all’inizio del fatidico 1977, curato per La salamandra dagli americanisti Bruno Armellin e Bruno Cartosio. Un terzo Bruno, il contemporaneista torinese Bongiovanni, lo avrebbe presentato notando come «il libro di Brecher… rispecchia, con un esito narrativo sempre felice, il mito americano, virile e prometeico, dell’iniziativa; gli operai, cioè, non stanno zitti, non subiscono in silenzio i soprusi ed i ricatti padronali».

È stato poi riproposto una quindicina d’anni fa da DeriveApprodi, che mi auguro si accolli meritoriamente anche la versione di quest’ultimissima edizione. Perché ce n’è bisogno, per quelli che uno sciopero non se lo sono mai potuti permettere, e per quelli che magari l’hanno dimenticato.
L’impianto del libro è rimasto lo stesso, con la centralità del nodo spontaneità-organizzazione, un rapporto che Brecher risolveva privilegiando nettamente il primo elemento, non senza forzature ed eccessi, come non mancò di notare tanti anni fa, con una punta professorale degna di migliori cause, anche chi scrive. Dimenticavo che questo limite invero era ampiamente compensato dal coraggioso, utilissimo e innovativo sforzo di sintesi che il libro forniva su un secolo di storia del proletariato industriale statunitense, visto attraverso tutti i più significativi episodi dell’insubordinazione di massa, dallo sciopero ferroviario del 1877, alle lotte degli anni Sessanta, spesso ingiustamente sottovalutate. Nella nuova edizione del 1997 era contenuto un importante aggiornamento sui limiti, ma anche sul potenziale, dei conflitti degli anni Ottanta, anni che pure segnavano una caduta verticale della forza d’urto del mondo del lavoro. Nella versione appena uscita la storia è aggiornata sino ai nostri giorni.

Riletto oggi, anche il vecchio nucleo del libro conserva un’indubbia presa, sul piano documentario e su quello metodologico, con quello sguardo acuto che parte sempre dal basso, dai gruppi informali di lavoro, cioè dalle forme di solidarietà e dalle diverse culture operaie che sorgono spontaneamente sul luogo di produzione. Uno sguardo che, confortato da tutto quello che abbiamo imparato e scoperto nel frattempo sulle divisioni e articolazioni di classe, razza e genere, sulla biopolitica, la bianchitudine, la govermentalità, e chi più ne ha più ne metta, dovremmo, credo, recuperare, in tutta la sua forza originaria, per capire che cosa è successo e accade quotidianamente nel corpo del lavoro vivo.
Lo stesso Brecher, del resto, in questi anni non è rimasto con le mani in mano o la testa prigioniera di vaghe formulette pseudorivoluzionarie o vacuamente riformiste. Ha continuato a studiare, partecipare attivamente alle lotte, raccogliere testimonianze e materiali, come dimostrano Banded Together. Economic Democratization in the Brass Valley (Urbana, Illinois University Press, 2011, pp. 251) sul progetto di «organizzazione comunitaria dal basso» contro la deindustrializzazione del Naugatuck Valley Project, e Save the Humans? Common Preservation in Action (Boulder, Paradigm Publishers, 2012 pp. 246), una sorta di autobiografia miracolosamente nonnarcistica sulle sue esperienze di pacifista, ecologista e militante sociale, in base al principio per cui la «conservazione di tutti è diventata la condizione per la sopravvivenza di ciascuno».

Lo conferma il lungo, nuovo, bellissimo capitolo finale di Strike! intitolato Oltre la guerra di classe unilaterale. In esso Brecher fa i conti con la dura offensiva capitalistica dell’ultimo quarantennio, con la crisi e gli errori del sindacato, ma anche con l’emersione di nuove forme di conflitto, in molti casi non scioperi in senso tradizionale, ma mini-rivolte, come lui le definisce, variegate e plurime, distese fra il luogo di produzione e il territorio, parte in certi casi, sia pure temporaneamente, di lotte e movimenti globali: dalla battaglia di Seattle contro il Wto, alle manifestazioni dei migranti che nella primavera del 2006 portarono nelle piazze degli Stati Uniti oltre cinque milioni di persone, all’intersezione fra economia globale, politiche governative migratorie e comunità latine negli Stati Uniti, alle lotte dei dipendenti pubblici del Wisconsin del 2011, ai movimenti di Occupy. Con acutezza Brecher ne ricostruisce limiti e contraddizioni, affinità e differenze rispetto ai secoli precedenti. Senza lasciarsi incantare dalle sirene dell’ottimismo cieco, ma senza neppure dimenticare che «qualunque cosa possa accadere in futuro, l’eredità della auto-organizzazione dei lavoratori continuerà a essere una fonte alla quale attingere per costruire risposte collettive ai problemi che dobbiamo affrontare».
Nella convinzione che quelli che appaiono come guai e problemi irrisolvibili, se vissuti nel chiuso delle nostre vite individuali, diventano questioni, magari aspre e difficili, ma comprensibili e passibili di soluzione, se sono sottoposte al confronto con gli altri, all’elaborazione collettiva, al lavoro comune.