In Giappone si chiamano «nikka-pokka»: sono gli ampi pantaloni da lavoro che si restringono alla caviglia (hanno una gamma ristretta di colori che va dal blu al nero, ma contempla anche il beige e il vinaccia) indossati dagli operai. Un esempio interessante di come i fashion designer locali e internazionali continuino a trarre ispirazione in termini estetici dalla praticità insita nella declinazione di un’attività professionale. Del resto l’incursione moda/divisa da lavoro non è certo recente, basti pensare alle innovative creazioni degli artisti delle avanguardie storiche, in particolare il futurista Thayaht che semplifica l’abito moderno maschile disegnando, realizzando e indossando (nel 1919) la tuta, capo che lo ha reso famoso.

Anche in ambito costruttivista è nota, tra gli altri indumenti, quella blu disegnata nel 1923 da Tatlin: al giorno d’oggi l’artista che indossa prevalentemente questo indumento è Paolo Buggiani, non prima di aver personalizzato una comune tuta blu da operaio con la sua «firma», il disegno colorato del braccio con la scritta «revolution» e la mano chiusa che stringe tre pennelli. Fin dall’antichità indossare la divisa, nella duplice valenza di oggetto e simbolo, ha comportato una serie di doveri in proporzione al ruolo che questa rappresenta nella gerarchia sociale. «A livello mondiale si distingue ancora oggi tra «colletti blu» e «colletti bianchi», due espressioni che si sono imposte in molte lingue della società industrializzata.

Walead Beshty
Negli anni ’90 si è aggiunta una terza espressione, «colletti rosa», che ha però avuto minor seguito», afferma Urs Stahler, curatore della mostra Uniform. Into the work/Out of the work. La divisa da lavoro nelle immagini di 44 fotografi nella PhotoGallery del Mast di Bologna (fino al 3 maggio), mentre gli spazi della Gallery/Foyer sono riservati alla mostra monografica di Walead Beshty. Ritratti industriali con 364 ritratti che l’artista statunitense ha dedicato ai professionisti del mondo dell’arte: artisti, collezionisti, curatori, galleristi, direttori di musei, tecnici e operatori. L’esposizione è incentrata su una serie di circa 600 immagini fotografiche (provenienti in parte dalla collezione del Mast) realizzate in momenti e con linguaggi diversi (incluso il video con la serie di Marianne Müeller) che indagano la complessità delle componenti dell’abito adottato come segno di distinzione per indicare «la qualità e il grado di chi la indossa» (dalla voce «divisa» nel Dizionario della moda di Georgina O’Hara), tra divise civili e militari.

Un vero e proprio archivio che riflette i cambiamenti della società, attraverso le affascinanti foto anonime dai bordi dentellati, incollate sulle pagine di album vintage (anni ’40) in un percorso che affianca agli scatti dei più grandi maestri del Novecento, artisti più giovani. Accanto alla stampa al platino (datata ’35) di Manuel Álvarez Bravo, in cui sono ritratti due vigili del fuoco messicani bardati come maschere tradizionali africane (quelle che invocano gli spiriti dei defunti) c’è, ad esempio, la foto in bianco e nero dell’operaio sfinito della Safety Boss Company, fotografato da Sebastião Salgado nel 1991, durante una pausa del suo lavoro in Kuwait.

Il gusto estetico (colore, foggia) è strettamente connesso con il ruolo che rappresenta la divisa: ai colori scuri è demandato il lavoro sporco, così come a quelli chiari (che sia la camicia o il camice) una professionalità tendenzialmente qualificata – dalle tute spaziali indossate nel 1969 (archivio Nasa) a quella dell’infermiera della serie Tedeschi in uniforme (1974) di Timm Rautert – soprattutto quando compaiono il distintivo e le mostrine o la cravatta. In quest’ottica si colloca il grande ritratto dei dirigenti di una multinazionale del duo Clegg & Guttmann (Michael Clegg e Martin Guttmann): una stampa cromogenica del 1980 in cui i cinque personaggi (ingessati nelle loro espressioni severe, riflesse nella gestualità delle mani) escono da un’oscurità squarciata da bagliori inquietanti caravaggeschi o alla David Lynch.

Dai primi piani dei minatori di Song Chao (la serie è del 2000-2002) ci spostiamo, in un viaggio nel tempo che tra andate e ritorni è un po’ aritmico, agli operai cinesi di Liu Heung Shing impegnati in fabbrica negli esercizi mattutini, alla giovane operaia ferraiola ritratta da Paola Agosti a Forlì nel ’78 e poi in un palazzo di Leningrado, dove Arno Fischer fotografa l’addetta all’ascensore come una diva degli anni Venti.
Spesso l’uniforme è accompagnata dagli attributi professionali, o comunque da quegli elementi che connotano immediatamente l’individuo in base al suo status sociale: nei Ritratti del Ventesimo Secolo di August Sander è proprio così (anche quando i soggetto è un disoccupato), così come in alcuni ritratti degli anni ’50 di Irving Penn, caratterizzati da quel perfetto equilibrio compositivo di «autentica» messinscena – ad esempio il Pescivendolo di Londra che ha un pesce in una mano e un panno chiaro nell’altra – che sembra fare da pendant alla contadina con l’oca spennata di Albrecht Tübke nella serie a colori Dallienford (1996). Suore e preti, hostess e poliziotti, macellai e ballerini, studentesse e gommisti, camerieri, cassiere e infermiere: anche la nudità (totale o parziale) può essere una divisa quando è associata al lavoro, come si vede nella serie in bianco e nero Sesso, teatro e carnevale (1980) di André Gelpke.

Interferenze
Ma che succede quando l’uniforme inganna? Per Weronika Gesicka, giovane artista polacca che sconfina tra immagini reali e finzione, è «uniforme» anche il volto sorridente (con il rossetto rosso) che si trasferisce su tutti i volti di una famigliola borghese in stile Grease: mamma, papà seduto in poltrona con i due figlioletti, bimbo e bimba. Anche nelle altre due fotografie della serie Traces (2017) esposte al Mast, l’autrice sovverte l’ideale scenario di «comfort zone» trasformandolo in un luogo vagamente surreale e potenzialmente minaccioso dove la realtà non è affatto prevedibile.