Fra gli ultimi titoli dell’ultima infornata di grosse uscite hollywoodiane dell’anno, Tutti i soldi del mondo (All the Money in the World) è il film che Ridley Scott ha preferito girare lasciando a Denis Villeneuve la responsabilità «pesante» della sequel di Blade Runner. Money rientra nel filone storico cui il regista di Le Crociate, Robin Hood, Il Gladiatore torna con regolare frequenza. In questo caso storia recente: il rapimento di Paul Getty III a Roma nel 1973 e le vicende che avrebbero portato al suo riscatto solo dopo drammatici sviluppi e la mutilazione del giovane erede alla favolosa fortuna petrolifera.

Girata con tutti i crismi, thriller teso, la storia verte sul rifiuto del nonno Paul Getty di pagare il riscatto mentre la nuora e madre del rapito (Abigail Harris/Michelle Wiliams) aiutata da un ex agente della CIA (Mark Wahlberg), tenta disperatamente di portare a termine le trattative. Un film che si carica di significati in questo crepuscolo trumpista – nei giorni in cui in America si completa l’arraffo plutocratico della «riforma» delle tasse – raccontando una storia in cui è il miliardario, più di tutti gli altri, compresa la malavita, a rivestire i panni del cattivo. Merito di Christopher Plummer che in Paul Getty Sr. crea un antagonista memorabile che rammenta l’eccentrico megalomane, paranoico di Quarto Potere.

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Ma è proprio questo personaggio – e gli attori che lo hanno interpretato – quello destinato ad iscrivere, al di là dei meriti specifici, questa pellicola nella storia, legandola a doppio filo allo scandalo degli abusi che in questi mesi ha travolto Hollywood e dintorni. Attori perché è noto ormai che la parte di Getty è stata recitata in un primo momento da Kevin Spacey prima di venire asportata da ogni fotogramma del film ormai ultimato e sostituito da Plummer. Operazione acrobatica di «editing» che non ha precedenti e che volendo solleva ampie problematiche di censura e moralismo nell’industria dell’espressione artistica, aprendo allo stesso tempo una rara finestra sulle politiche industriali degli studios che sottendono il cinema hollywoodiano.

Tutto inevitabilmente in primo piano quando qualche giorno fa un ristretto numero di giornalisti è stato convocato agli studios della Sony per una super anteprima di una copia di lavorazione ed una conferenza stampa con il regista. Ad accoglierli c’era nientemeno che il presidente della Sony/Columbia Tom Rothman in vena di inconsueto candore e pronto a raccontare i retroscena. «Il film era finito, già montato e missato, le copie spedite….ed è stato subito chiaro che i meriti del film sarebbero stati completamente oscurati (dallo scandalo, ndr)».

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Dopo Weinstein, Spacey è il nome più radioattivo di Hollywood, le voci sul suo conto sono annose e diffuse. Di fatto Spacey, uno dei migliori interpreti della sua generazione, diventa quasi immediatamente paria nell’industria. Netflix lo licenzia in tronco dalla propria serie di maggior successo, House of Cards, L’attore viene messo all’indice e il suo caso in città riapre antiche polemiche, su Polanski, Woody Allen, e la questione di come porsi dinnanzi all’opera professionale di «trasgressori». «Spacey merita tutto il disprezzo, ma mi può ancora piacere House of Cards?» si chiede Hannah Jane Parkinson sul Guardian. Sulla questione Hollywood si spacca fra «garantismo» e «giustizialismo» artistico – alla Sony non interessa la questione estetica/filosofica. A Culver City, i piani alti degli studios che furono MGM, piombano nel panico: per Rothman e i suoi manager si profila la catastrofe.

Lo studio ha vissuto un anno non brillante, su Tutti i Soldi conta per pareggiare i conti e anche per entrare in gara premi con un titolo di prestigio – ora tutto rischia di andare in fumo, quantomeno di venir perso nella polemica che sembra ogni giorno più rovente. Al di là del botteghino, l’Academy ha già ampiamente chiarito, con l’espulsione di Weinstein, come intende porsi di fronte a personaggi in disgrazia. Di premi non se ne parla nemmeno. «Tanto valeva bruciare il negativo», dice Rothman – una perdita totale.

Mentre l’ufficio marketing valuta disperatamente le strategie per salvare l’uscita, fra Los Angeles e Londra dove Ridley Scott sta febbrilmente lavorando al mix finale si accende un traffico rovente di conversazioni via skype. Scott, col produttore Dan Friedkin, propone un’idea folle: cancellare tutte le scene di Spacey, rigirarle con un altro attore e rimontare tutto prima dell’uscita prevista sei settimane dopo, a natale. «Un’ idea che mia moglie definirebbe balzana», dice Rothman «un termine tecnico del cinema che vuole dire col cazzo che si può fare».

Data la mole delle produzioni hollywoodiane è come fare inversione con un transatlantico. È già tutto pronto per l’uscita: i trailer, la grafica – le copie per i mercati esteri già doppiate e pronte a partire. Riaprire la lavorazione comporta non solo trovare un sostituto ma avere la disponibilità di ogni altro attore che ha scene con Getty Sr. un personaggio che ricorre lungo tutto il film, ritrovare le location, riprodurre scenografie, luci… Un’opera immane. Secondo Rothman possono esserci 2, 3 registi al mondo in grado di portare a termine un’ operazione del genere. Uno è Ridley Scott. «Non potevo lasciare che questa storia danneggiasse il nostro film. Era assolutamente inaccettabile», sottolinea il regista, sulla riflessione che lo ha portato a decidere il rimontaggio.

 

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«Lui (Spacey) non si è nemmeno mai fatto sentire dopo le rivelazioni, così ho deciso di andare avanti. Prima abbiamo trovato un sostituto. Plummer era sempre stato la mia seconda scelta e per nostra fortuna era disponibile. Gli altri attori hanno dato la disponibilità a tornare sul set per i giorni necessari. In due giorni la mia squadra aveva organizzato tutto». «Quando Ridley si mette in testa una cosa, non c’è verso», spiega Rothman, «e tenete presente che durate la lavorazione ha compiuto 80 anni!». In senso più lato, azzardiamo, cosa pensa di chi propone di censurare le opere di autori ritenuti colpevoli di trasgressioni sessuali? «Una gigantesca stronzata – ribatte immediato il regista – allora dovremmo tirar giù ogni quadro di Francis Bacon…l’arte è arte e va separata dal comportamento dell’artista».

E il lavoro di Spacey? L’epurazione retroattiva dal suo film? «Era necessario, l’unico modo per evitare che i misfatti di un individuo ricadessero sul lavoro di altre 800 persone». Dopo tutto questo cambieranno le cose a Hollywood? «Sicuro. O meglio, stiamo passando una fase, un’ evoluzione che ha tardato pure troppo».