È paradossale che i prigionieri politici più famosi ed emblematici degli Stati uniti siano, ormai da molti decenni, Leonard Peltier e Mumia Abu Jamal, rispettivamente un nativo Lakota e un afroamericano, discendenti di due popoli deprivati, sterminati e schiavizzati: gli africani sradicati dai loro villaggi e deportati, i native americans massacrati e spossessati della loro terra.

Mumia Abu Jamal, conosciuto anche come “la voce dei senza voce” è detenuto da ormai 32 anni. Tra gli altri casi spiccano le vicende di Gerardo Hernandez, Antonio Guerrero, Fernando Gonzalez, Ramon Labañino e Renè Gonzalez, cioè i cinque prigionieri cubani in carcere da 15 anni.

Non fa eccezione la vicenda del sergente Bradley Manning che, condannato solo un anno e mezzo fa, rischia il carcere a vita solo per aver rivelato la verità sulla realtà della guerra a WiKileaks, a differenza di molti suoi commilitoni che, pur macchiandosi di crimini orrendi come torture e omicidi, hanno avuto un trattamento ben più tollerante, per non dire assolutorio.

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Poi altri nomi meno noti come Russell «Maroon» Shoats, prigioniero politico New Afrikan; Marilyn Buck, prigioniera politica anti-imperialista; Debbie Sims Africa e i MOVE9, membri dell’organizzazione rivoluzionaria MOVE, detenuti sin dal 1978; e ancora Albert Woodfox, Bill Dunne, Byron Shane Chubbuck, Jaan Laaman, David Gilbert, Jalil Muntaqim, Hanif Shabazz Bey, Herman Bell, Sundiata Acoli, Bashir Hameed, Rafael Cancel Miranda e tanti/e altri/e di cui poco o nulla ci si occupa.

Fatta eccezione, davvero rara, di qualche volenteroso regista cinematografico, come nel caso di Marc Evans e del suo film-documentario di pochi anni fa, «In prison my Whole life» (in prigione tutta la mia vita), che narra appunto la storia di Mumia Abu Jamal.

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