Mandare a casa il sindaco Marino – che a Renzi piace poco – sarebbe stato visto come un regolamento di conti nel Pd. Dunque si prende la via di un commissariamento sostanziale. Più che lo scioglimento del municipio di Ostia, conta che l’amministrazione e il sindaco siano stati consegnati all’occhiuta guardiania del prefetto. Che si chiami coordinamento non fa differenza, è un regime a sovranità molto limitata. Soluzione da tempo adombrata per il Giubileo. È un singolare contrappasso che sia chiamato al compito il prefetto che la storia ricorderà come l’uomo che non sapeva nulla (del funerale del boss Casamonica).

Ma, secondo regola, si doveva sciogliere o no? La norma oggi vigente sullo scioglimento per infiltrazioni e condizionamenti mafiosi o camorristici è l’articolo 143 TUEL (testo unico enti locali). La legge originaria risale ai primi anni Novanta, poi modificata, e oggetto di polemiche ricorrenti.
Anzitutto, nella prima versione era mirata unicamente allo scioglimento delle assemblee elettive, con commissariamento e nuove elezioni. Paradossalmente, potevano rimanere al proprio posto funzionari e dirigenti senza i quali il condizionamento mafioso non avrebbe potuto farsi strada, e magari veniva mandato a casa chi era stato eletto su un programma di lotta ai poteri criminali. Una debolezza evidente, poi corretta dal legislatore.

Inoltre, in termini generali, la legge si inserisce in un campo nel quale l’attività criminosa non giunge ancora alla puntualità di elementi che bene reggerebbero l’azione penale. Se la condotta criminale è accertata e chiaramente imputabile, lo strumento chirurgico di elezione è il giudizio penale. Lo scioglimento di cui si parla interviene nel campo del sospetto, del pericolo, della probabilità che accanto a un crimine accertato altre attività illecite abbiano potuto o possano svolgersi. Le relazioni sull’accesso sulle quali si basa la decisione di sciogliere fanno spesso riferimento a frequentazioni, contatti, contesti di rapporti e collegamenti con persone o ambienti noti per l’appartenenza a organizzazioni criminali. Un terreno scivoloso, e suscettibile di interpretazioni molteplici, soprattutto per gli enti locali minori in cui la rete di legami di parentela o amicizia è inevitabilmente pervasiva. Nell’attuale formulazione, modificata con la legge 94/2009, l’articolo 143 del TUEL richiede «concreti, univoci e rilevanti elementi» ai fini dello scioglimento. Una formulazione stringente voluta dai più garantisti, che per non pochi ha tolto alla legge gran parte della sua efficacia.
In ogni caso, la decisione di sciogliere per infiltrazioni o condizionamenti – affidata al Consiglio dei ministri – mantiene un alto grado di discrezionalità, ed è fatalmente oggetto di una lettura politica. Non è un caso che – con la sola eccezione di Reggio Calabria – mai siano stati sciolti i consigli comunali di città importanti. È ovvio che lo scioglimento di Roma avrebbe avuto un impatto fortissimo. Del resto, anche lo scioglimento di comuni minori può essere un percorso accidentato, quando il potere locale è un tassello di equilibri nazionali di governo, infra o interpartitici. Chi va a sciogliere a cuor leggero per mafia o camorra un consiglio comunale in cui siedono portatori di essenziali pacchetti di voti, magari pronti a passare al nemico? È stato ampiamente citato il caso del comune di Fondi, che nel 2009 il Consiglio dei ministri non sciolse, nonostante la proposta in tal senso.

Le statistiche ci dicono che gli scioglimenti degli enti locali sono numerosi, e in larga maggioranza hanno luogo per dimissioni volontarie, soprattutto dei consiglieri e talvolta del sindaco. Una parte di questi scioglimenti per dimissioni può essere dovuta proprio all’intento di anticipare uno scioglimento per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi. Il comune di Fondi, prima citato, fu sciolto per dimissioni del sindaco. Dove c’è odore di mafia o camorra e timore di commissariamento, giocare di anticipo andando subito al voto può essere la via più agevole di riconquistare la poltrona.
Il malato è grave. È fallita la grande scommessa che negli anni Novanta aveva cercato nelle autonomie una nuova vitalità per il paese. E la fragilità della politica e delle istituzioni mostra come sia illusorio il mantra di sapere chi ha vinto la sera del voto. È così nelle regioni e negli enti locali. Ma di buon governo nemmeno l’ombra. E non farà certo differenza la modifica di qualche parola nell’articolo 143 TUEL. Bisogna ragionare su come rinsaldare le istituzioni e i soggetti collettivi che in esse operano, essenziali per far valere responsabilità politica e controllo sociale. Contro la corruzione, bisogna far crescere gli anticorpi nel vivere e nell’amministrare quotidiano. I blog, le assemblee virtuali, il micro-associazionismo sono utili e talora benemeriti, ma non sufficienti. E tanto meno servono le leggi spot e gli interventi emergenziali eretti a sistema.
Un progetto di prospettiva e di ampio respiro, volto a rianimare una democrazia gracile e asfittica. Questo serve al paese, e il caso Roma lo conferma. Invece Renzi riferendosi al senato ci dice dal meeting di CL a Rimini che non si aumenta la democrazia moltiplicando le poltrone. Dipendesse da lui, la aumenterebbe dividendole fino a lasciarne una sola. La sua.