Sarà lunga e accidentata la strada che il presidente colombiano Gustavo Petro dovrà percorrere per realizzare la «pace totale», l’ambizioso programma del suo governo su cui ha deciso di investire tutte le sue energie.

A creargli problemi è addirittura la sua famiglia, stando alle voci secondo cui suo fratello Juan Fernando Petro Urrego e il suo figlio maggiore Nicolás Petro Burgos avrebbero preso tangenti nel quadro del piano di pace governativo: entrambi tirati in ballo a proposito di presunte riunioni nelle carceri in cui alcune persone, spacciandosi per membri del governo, avrebbero negoziato con i narcos, offrendo benefici processuali in cambio di laute somme di denaro.

IL PRESIDENTE però ha giocato di contropiede, chiedendo al procuratore generale «di svolgere tutte le indagini necessarie e determinare le possibili responsabilità».

«Il mio impegno con la Colombia è ottenere la pace e non c’è posto per chi vuole interferire o trarne vantaggio personale, anche se si tratta di membri della mia famiglia», ha scritto in una lettera divulgata su Twitter, auspicando che il fratello e il figlio «possano dimostrare la loro innocenza», ma garantendo il rispetto delle «conclusioni a cui arriverà la giustizia».

Ma su ogni fronte la sua è una corsa contro il tempo. Nei suoi primi sei mesi di governo, Petro ha varato una riforma tributaria che garantirà oltre 4 miliardi di dollari l’anno di risorse aggiuntive, destinate in gran parte ai ceti sociali più poveri e al rafforzamento del welfare colombiano; ha annunciato cambiamenti strutturali nella legislazione del lavoro, dell’educazione e soprattutto della salute, con l’obiettivo di rendere pubblico e universale il sistema attuale finora gestito dai privati; ha presentato modifiche al sistema previdenziale, accompagnate da un aumento del salario minimo del 16%; ha mosso qualche passo in direzione della riforma agraria.

E naturalmente ha portato avanti, con alterne fortune, la sua agenda di pace, annunciando il cessate il fuoco con cinque gruppi armati, poi ridimensionato dalla smentita dell’Eln, ma avanzando con quest’ultimo nei negoziati di pace, di cui si sta svolgendo in Messico il secondo round.

IL PARAMILITARISMO, tuttavia, è ancora vivo e vegeto: già 18, da inizio anno, i leader sociali assassinati. Né si fermano i massacri, arrivati a quota 20 in appena due mesi. E quanto sia ancora profondo il malessere sociale lo ha indicato anche il sequestro di 79 poliziotti, ancora in corso, da parte di indigeni e contadini nel quadro di una protesta nel Caquetá contro un’azienda petrolifera, in cui sono già morti un agente e un contadino.

Ed è proprio sulla violenza e sulle strategie per contrastarla che si è scatenata giovedì la polemica via Twitter tra Petro e il presidente salvadoregno Nayib Bukele, protagonista di un’impressionante offensiva contro le bande criminali che ha condotto all’arresto di 64mila persone. Una guerra che Bukele sta vincendo – la loro presenza nei territori è quasi azzerata – ma nel più completo disprezzo dei diritti umani e della democrazia.

Sono state non a caso le immagini sui primi 2mila detenuti in partenza per la mega prigione costruita a Tecoluca – scalzi, con la testa rasata, ammanettati, seminudi, ammassati come animali – a suscitare l’indignata reazione di Petro, che ha parlato di «un campo di concentramento, pieno di migliaia di giovani prigionieri, che dà i brividi».

IN COLOMBIA, ha aggiunto, «abbiamo ridotto i tassi di omicidi e violenza, non con mega carceri, ma con scuole e università», passando «dai 90 omicidi ogni 100.000 abitanti (1993) a Bogotà a 13 omicidi ogni 100.000 abitanti (2022)».

E Bukele, di rimando: «Dal 1993? 30 anni… Ma lei ha governato 30 anni? Bogotà? Non sei il presidente della Colombia? La nostra esperienza: da più di 100 omicidi ogni 100.000 abitanti, ora siamo a percentuali di una sola cifra». Le scorciatoie fanno miracoli.