Ora che si avvicina la graduale riapertura nella gran parte dei paesi europei, ed è passata almeno la prima fase di emergenza sanitaria, le attenzioni di molti ricercatori sono concentrate sulla vexata quaestio della risposta immunitaria al virus.

Può sembrare strano, ma ci sono ancora molti problemi aperti che gli scienziati stanno cercando di dirimere. Il virus della Sars-Cov-2 provoca sempre la produzione di anticorpi? Per quanto tempo? La presenza di questi anticorpi è sufficiente per proteggere l’organismo da una seconda ondata pandemica? Per quanto tempo? A quanta concentrazione virale sono in grado di rispondere gli anticorpi? Che livello di variabilità genetica del virus possono sopportare?

Un articolo uscito questa settimana sulla rivista Nature Medicine comincia a gettare luce almeno sulla prima di queste questioni. Si tratta di una brief communication, una comunicazione sintetica, firmata da 50 ricercatori da ospedali e laboratori cinesi. Dicono che massimo 19 giorni dopo aver presentato i primi sintomi, tutti e 285 i pazienti di Covid-19 studiati presentano sia anticorpi IgM, sia IgG (immunoglobine M e G), che sono considerate generalmente un’indicazione affidabile dell’essere entrati in contatto con un determinato agente patogeno.

Come ha dichiarato al manifesto l’immunologa Antonella Viola, dell’Università di Padova, si tratta indubbiamente di «un’ottima notizia».

Negli altri due virus simili al responsabile dell’attuale pandemia, i causanti della Mers e della Sars, era possibile identificare questi anticorpi dopo circa due settimane dai primi sintomi in quasi tutti i casi. Quindi, nelle parole di Viola, «questi risultati ci dicono che ha senso fare i test sierologici perché siamo in grado di identificare tutte o gran parte delle persone infettate». Sul 100% Viola non mette la mano sul fuoco, perché stiamo parlando comunque di un campione statisticamente molto piccolo di ammalati, e tutti sintomatici.

Gli stessi ricercatori spiegano di aver analizzato 164 persone che erano state in stretto contatto coi pazienti. Sedici di loro erano risultati positivi al test con la Pcr, che identifica in maniera affidabile chi è entrato in contatto con il virus attraverso la rilevazione dell’Rna virale. Il test sierologico sugli anticorpi di questi 16 individui ha identificato gli anticorpi per il Covid-19.

Ma fra i 148 casi rimanenti, tutti negativi al test Pcr, il test sierologico basato sugli anticorpi studiati dai ricercatori è riuscito a trovare altri 7 casi. Solo con la Pcr queste sette persone non sarebbero state identificate. Ulteriore conferma, come sottolineano gli autori, che l’approccio sierologico è ottimo per il monitoraggio della malattia.

Ma quanto questa risposta immunitaria sia davvero capace di proteggere da una futura infezione è un gigantesco punto interrogativo. Se si comportano come gli anticorpi dei virus che causano Sars e Mers, possiamo contare su un annetto di immunità. Ma lo studio cinese non è in grado di stabilire se questi anticorpi sono davvero protettivi. Gli stessi ricercatori mettono nero su bianco un enorme caveat: «non abbiamo effettuato test per la neutralizzazione del virus e pertanto l’attività neutralizzante degli anticorpi IgG identificati è sconosciuta».

Questo avvertimento deve spingere alla cautela chi è già pronto a sciogliere le campane: non sappiamo ancora se possedere questi anticorpi può costituire una garanzia contro un futuro incontro con l’agente patogeno. «Lo studio non ci dà nessuna informazione sulla protezione che ci forniscono gli anticorpi», insiste ancora Viola. Si tratta, dunque, solo di un primo passo. E di una buona notizia sull’utilità dei test sierologici, nient’altro. Per ora.