Umbria Jazz 21 riprende, dopo l’edizione “breve” del 2020, il cammino del festival. Anteprima il 7-8 luglio (con la sonorizzazione del film Inferno, 1911, da parte di Mauro Ottolini & Sousaphonix) e la storica rassegna si sta snodando dal 9 fino al 18. Travagliata la fase organizzativa, fra il procedere della pandemia e i “colori” delle regioni, in un continuo mutarsi di direttive (ora non è più necessaria la green card per accedere ai concerti). Dalle prime giornate emergono tendenze sia nella “presenza fisica” del festival che nelle sue proposte. U. J., anno II del Covid, ha contratto gli spazi; essi sono il teatro Morlacchi (in pomeridiana), la sala Raffaello dell’hotel Brufani (12 e 15,30, U.J. Club), l’arena Santa Giuliana (alla sera). Niente palchi nelle piazze per evitare assembramenti e “rarefazione-concentrazione” del jazz; il distanziamento abbatte comunque i posti disponibili per un pubblico in presenza “condizionata”. Si spera solo per quest’anno: la musica ha bisogno di contatto, prossimità, intensità, comunicazione tra palco e platea, dinamiche che spettatori e artisti stanno tentando di riattivare.

MOLTI I JAZZISTI italiani mentre si alternano visioni del jazz come codice “chiuso”, più repertoriale, ad altre orientate al codice “aperto”. Di sicuro interesse la rassegna delle Orchestre Italiane al teatro Morlacchi: se ne ospitano dieci tra cui le pregevoli Colours Jazz Orchestra – fondata vent’anni fa e diretta dal trombonista Massimo Morganti – e la Lydian Sound Orchestra, medium-band costituita nel 1989 dal compositore-arrangiatore Riccardo Brazzale (pluripremiata nei referendum Top Jazz sia come formazione che per gli album tra cui Mare 1519). Originale la sinergia tra l’Umbria Jazz Orchestra ed Ethan Iverson (membro dei Bad Plus fino al 2017), già realizzata in un progetto su Bud Powell. Con Ritornello, Sinfonias & Cadenzas il pianista-compositore lavora su tecniche di tradizione classica con un organico jazz simile ad un ottetto di Stravinsky (nell’ottimo gruppo Rossano Emili, Davide Ghidoni, Francesco Lento, Morganti; ospite il batterista Jorge Rossy). Imprevedibile e spesso straniante, la musica di Iverson solca il ‘900 unendo in modo ironico, affascinante e imprevedibile jazz e musica classica.

AL VERSANTE repertoriale appartengono i protagonisti della serata del 9 all’arena Santa Giuliana. Il pianista Emmet Cohen in trio (Phil Kuehn, contrabbasso; il fantasioso Kyle Poole alla batteria) è un affermato trentenne, vincitore nel 2014 dell’American Jazz Pianists Competition, impegnato nel programma “Jazz for Young People”. Ha una salda conoscenza della tradizione che proietta nel presente-futuro, con una tecnica dallo stride piano alla contemporaneità. I virtuosistici Futur Stride e Symphonic Raps sono i brani che meglio lo rappresentano ma sa suonare con brio Bix (Dardanella) e accompagnare con garbo la 21enne cantante Samara Joy.

La Jazz at Lincoln Center Orchestra, diretta da Wynton Marsalis, fa della repertorialità l’asse della propria poetica. Il magnifico ensemble, dal suono straordinario, rilegge Dizzy Gillespie, Duke Ellington, Count Basie, Jelly Roll Morton proponendo altresì brani originali, composizioni estese che esaltano alcune caratteristiche del jazz (come The Fifties: A Prism di Chris Crenshaw), il tutto con ottimi solisti quali il trombettista Marcus Printup e i sax Ted Nash e Sherman Irby.

Verso il “codice aperto” gli artisti ascoltati il 10. Stefano Bollani, applauditissimo, ha reso omaggio all’incontro che nacque proprio a U.J. con Chick Corea; ne ha eseguito brillantemente la musiche – da Children Song” a La fiesta -, proposto riletture finendo con la musica brasiliana e il canto insieme a Valentina Cenni. Jazz come presente, passato e futuro è risuonato nelle note del quartetto dell’81enne batterista e didatta afroamericano Billy Hart (un passato da Otis Redding a Charle Lloyd); il gruppo è nato nel 2003, ha due album alle spalle e una front-line con Mark Turner (sax tenore tra i più visionari della scena contemporanea), Ethan Iverson (piano) e Ben Street (contrabbasso). Hart guida con mano sicura ed eccellenti poliritmie una formazione che viaggia spedita, tra composizioni originali (Duchess) e riferimenti coltraniani, come il trascinante bis in cui Turner ha evocato Giant Steps di John Coltrane. Sia chiaro che il passato è in controluce anche nel quartetto di Hart nei cui assoli affiorano omaggi al Max Roach di The Drum Also Waltzes: quello che cambia è la prospettiva, la tensione, l’improvvisazione che non si fossilizza né accademizza, ma guarda, con coraggio e lucidità, al nostro presente.