Tra gli autori della Pixar, Pete Docter è quello considerato dai colleghi il più bravo «con le emozioni». Il che lo rende per definizione il regista perfetto per Inside Out, il nuovo film della factory di John Lasseter, e il primo diretto da Docter a partire da Up, che aveva Cannes 2009. Ispirato al passaggio tra infanzia e adolescenza della figlia undicenne di Docter (che in Up era una delle voci), Inside Out, è il più high concept dei film che la Pixar ha realizzato finora, e non solo perché è ambientato quasi interamente nella testa di una bambina. Tutti i cartoon Pixar sono basati su un’idea forte e molto chiara, ma questo è forse il primo che introduce un livello ulteriore di complessità e un eccesso di scrittura/esposizione che sembrano espressamente intesi per un pubblico adulto. Non a caso, alla conclusione della proiezione stampa, la sala Lumiere (al giro di boa di una Cannes la cui selezione ufficiale, finora, non ha dato grandi soddisfazioni) è esplosa in un fragoroso applauso.

Piazzati a un banco comandi come quello della cabina di controllo di un’astronave, Gioia (gialla, sorridente, eternamente ottimista), Tristezza (blu, grassottella con il caschetto e gli occhiali, sempre stanca e in crisi d’identità), Disgusto (verde, scettica ed elegante), Paura (viola e filiforme, tutta occhi e movimenti esagerati) e Rabbia (rossa e tozza come una cartuccia pronta a esplodere) sono le emozioni che pilotano l’esistenza di Riley, una bimba del Minnesota (come Pete Docter). In una sequenza che ricorda il bellissimo montaggio love story all’inizio di Up, la vediamo appena nata, come un bocciolo rosa, e poi in una serie d’istantanee riprese nel passare degli anni – in cui mangia, gioca, disegna, pattina sul ghiaccio…A parte l’occasionale capriccio è una bimba felice.

Con Gioia, l’emozione dominante, saldamente alle redini della situazione, e che ci illustra con orgoglio il funzionamento del «mondo della mente», che ha i colori vivacissimi dei musical anni cinquanta e in certi angoli rimanda un po’ alla fabbrica di Monsters ,Inc. In esso, dal quartier generale, le memorie, racchiuse in sfere colorate a seconda delle emozioni che le caratterizzano vengono spedite in Isole della personalità (hockey, famiglia, onestà, amicizia..) dove, poco a poco, definiscono l’identità della bambina. «Fuori» da quest’universo fantasmagorico, Docter dà alla sua realtà toni, colori e un design naturalistico.

Creato sulla base di studi scientifici delle emozioni umane (in particolare quella degli adolescenti), e con la consulenza del docente di psicologia di Berkeley Dache Keltner, «il mondo della mente» è il teatro del viaggio (luogo narrativo favorito della Pixar) che Gioia e Tristezza intraprendono quando, dopo che la sua famiglia si trasferisce a San Francisco causa un nuovo lavoro di papà, le emozioni di Riley vanno completamente sottosopra e la sua identità così ben equilibrata inizia, letteralmente, a perdere i pezzi. Rabbia, disgusto e paura prendono il sopravvento e, da bimba solare, affettuosa ed estroversa, Riley si trasforma in una teen ager chiusa, depressa e incline agli attacchi di collera. La nuova città intorno a lei un paesaggio grigio e inospitale. Il camion dei traslochi si è perso i mobili quindi lei dorme per terra. Persino il rosso del Golden Gate Bridge pare spento.

Come i viaggi dei giocattoli di Toy Story o della casa appesa ai palloni di Up, per resettare l’equilibrio di Riley, Gioia e Tristezza attraversano avventure fantastiche, in mondi esotici, che offrono a Docter e company ampie possibilità di divertirsi. C’è per esempio una Dream Productions, dove si producono sogni (tra cui il boyfriend ideale), modellata su uno Studio hollywoodiano e sui suoi teatri di posa. C’è un’Imagination Land in omaggio a Disneyland, con foreste di patate fritte e case di biscotti; un luogo del Subconscio che ricorda i film horror ed è popolato da un pagliaccio enorme e spaventoso che si chiama Django; e uno del Pensiero astratto, in cui Gioia e Tristezza vengono distillate prima in statue cubiste e poi in silhouette bi-dimensionali…Insieme alle due emozioni è Boing Boing, l’amico immaginario di Riley, e l’incrocio tra una palla di zucchero filato rosa, un elefante, uno (stre)gatto e un delfino (il personaggio, dice Lasseter nel press book, è ispirato Oliver Hardy e John Candy).

Tanto, tantissimo, forse troppo – è l’emozione dominante alla fine della proiezione di Inside Out. L’impressione che l’incalzare dell’azione, il continuo alzare la posta (un’altra caratteristica dei film Pixar), siano qui più un affastellarsi d’idee, una sopra l’altra, che di scene veramente compiute, esplorate in tutto il loro potenziale, visivo e drammatico. Anche il disegno e l’animazione, nonostante momenti bellissimi e la scommessa (più Seuss che Disney) di affidare il carico del film a personaggi dalla forma quasi completamente astratta, sembrano meno curati, visionari del solito. Manca alle rocambolesche peripezie di Gioia e Tristezza la suspense sublime dei giocattoli che attraversano la strada in Toy Story 2, il cuore indimenticabile del robotino Wall-e, la magia fiabesca dei mondi sottomarini di Finding Nemo, la slapstick del boy scout che suona alla porta del vecchio signore di Up.

Quando Riley, più frustrata e infelice che mai (e mentre Gioia e Tristezza sono intrappolate nei vari cliffhanger della coloratissima gimcana mentale) decide di scappare di casa, il film assume addirittura un tono moralista: la fuga non è come quelle di Tom Sawyer, Huckleberry Finn o dei bambini di Peter Pan – voglia di scoprire il mondo- ma (ci mostra il collasso del mondo interiore della bimba) un tradimento della famiglia. Se, come hanno detto Lasseter e Docter, Inside Out, vuole descrivere i momenti difficili di un passaggio di età, l’happy ending finale non inganna nessuno: il verdetto di questo team di geni che ha fatto tesoro del rivendicare un’infanzia perenne rimane immutato: growing up sucks, crescere è orribile.