Seduti davanti ai nostri schermi televisivi, o ipnotizzati dalle notizie flash sul telefonino, ci siamo abituati a pensare che i colpi di stato siano qualcosa che accade in Africa (vedi Sudan in queste ore) o in America Latina, non da noi. Ma se il “noi” comprende anche gli Stati Uniti, con i loro grattacieli, film di Hollywood e vivaci piattaforme su cui scambiarsi foto e video, allora ci sbagliamo: i colpi di stato arrivano anche qui, nel cuore dell’Impero. Magari falliscono, ma per un pelo, com’è accaduto il 6 gennaio scorso.
Nelle ultime 72 ore sono arrivate le prove che l’assalto al Congresso non era una manifestazione pro-Trump di qualche centinaio di estremisti che erano riusciti a rompere i cordoni della polizia per poi farsi i selfie in mezzo ai quadri e alle statue. E, benché fosse ovvio fin dal primo momento che l’istigatore dell’assalto era lo stesso presidente, le dimensioni della cospirazione antidemocratica non erano chiare: in questi mesi l’Fbi ha arrestato soltanto la manovalanza e nessuno degli organizzatori.
Grazie alle indagini della Camera e a un approfondito articolo della rivista Rolling Stone ora ne sappiamo di più: il tentativo di impedire a Biden di entrare in carica era il frutto di una lunga pianificazione, iniziata mesi prima, che aveva il suo quartier generale presso lo Willard hotel di Washington, a due isolati dalla Casa Bianca.

IL GRUPPO che si riuniva lì includeva vari avvocati di Trump, tra cui Rudy Giuliani e John Eastman, diversi importanti collaboratori del presidente, tra cui il suo capo di gabinetto Mark Meadows e naturalmente Roger Stone, che aveva iniziato la sua carriera di manipolatore delle elezioni addirittura con Nixon, quasi 50 anni fa. La mattina del 6 gennaio Stone lasciò l’hotel con le sue guardie del corpo, che appartenevano al gruppo di estrema destra Oath Keepers, poi coinvolti nell’assalto a Capitol Hill. C’erano inoltre numerosi repubblicani membri della Camera che avevano attivamente partecipato: Majorie Taylor-Green (Georgia), Andy Biggs e Paul Gosar (Arizona), Lauren Boebert (Colorado), Mo Brooks (Alabama), Madison Cawthorn (Nord Carolina) e Louie Gohmert (Texas).
La mente del progetto di golpe sembra essere stata Stephen Bannon che già prima delle votazioni del 3 novembre, il primo ottobre, aveva accusato i democratici di voler «rubare le elezioni», un’affermazione più volte ripetuta dallo stesso Trump. Bannon aveva lanciato l’idea di «concentrarsi sul 6 gennaio» ovvero sul giorno in cui il Congresso doveva ratificare i voti dei delegati degli stati nel collegio elettorale (il presidente americano viene eletto da questi delegati, non direttamente dai cittadini).

SECONDO il Select Committee della Camera «Bannon aveva sollecitato l’allora presidente Trump a fare pressione sull’allora vicepresidente Mike Pence per aiutarlo a rovesciare i risultati delle elezioni del 2020». Il giorno prima dell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio, Bannon aveva predetto «Domani si scatenerà l’inferno». Il piano era di convincere, o costringere, Pence in quanto presidente del Senato a rifiutare la ratifica dei voti elettorali di alcuni stati, in modo da impedire a Biden di raggiungere la maggioranza di 270 delegati su 538 nel collegio elettorale. Questo avrebbe permesso ai repubblicani di invocare una clausola dell’articolo 2 della Costituzione secondo cui in caso nessun candidato ottenga la maggioranza il compito di eleggere il presidente passa alla Camera dei rappresentanti.
Una clausola che avrebbe permesso la rielezione di Trump perché essa prevede che alla Camera non votino i singoli deputati bensì le delegazioni dei 50 stati, ciascuno dei quali disporrebbe di un solo voto. Poiché i repubblicani in effetti controllano una maggioranza delle delegazioni (27 su 50) benché i democratici abbiano un maggior numero di deputati il piano poteva riuscire. E questo nonostante i democratici nel 2020 avessero ottenuto più voti a tutti i livelli: nel voto popolare, nel voto del collegio elettorale e nel voto per i deputati.
Un colpo di stato fallito per un soffio: Pence avrebbe potuto farsi convincere dalle telefonate di Trump o dalla minaccia fisica costituita dagli scherani del presidente, entrati in Congresso per interrompere la seduta congiunta delle due camere dedicata alla ratifica dei risultati elettorali.

UN GOLPE, d’altronde, che si avvaleva di metodi già sperimentati altrove, come in Bolivia nel 2019, quando Evo Morales fu obbligato a fuggire con una combinazione di manifestazioni e di minacce alla sua vita. Un metodo simile a quello usato in Brasile, prima con l’impeachment della presidente Dilma Roussef nel 2016 e poi con la scandalosa procedura giudiziaria che aveva impedito a Lula di presentarsi alle elezioni contro Bolsonaro nel 2018. Non servono i carri armati quando si possono comprare, o intimidire, parlamentari e giudici.