La conferenza stampa del presidente del consiglio Giuseppe Conte dello scorso venerdì 10 aprile ha suscitato, com’è noto, polemiche astiose e prolungate.

Il motivo di tanta lite è stato l’attacco esplicito portato dal premier agli oppositori, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Entrambi, ma quest’ultimo soprattutto, usi ad una presenza non stop in video: secondo le tabelle pubblicate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dal luglio del 2019 al febbraio del 2020 ben 140 ore di esposizione (quasi come Ben-Hur, per intenderci, senza facili ironie). Primo, insomma, con distacchi da Tour de France.

E non è che la presidente di Fratelli d’Italia scherzi, in quanto ha i favori trasversali di pezzi del ceto politico che la vedono come potenziale alternativa al leghista.

La questione, dunque, è tutta e solamente politica. Inerisce alla complessità della crisi italiana e all’altrettanto complesso relazionarsi tra governo, maggioranza ed opposizioni.

È evidente che la caduta dei consolidati partiti di massa ha portato con sé diverse confusioni di ruoli e un addensamento improprio di funzioni sulle spalle di palazzo Chigi. Insomma, il presidente del consiglio Conte ha assunto le sembianze del Capo, sia per meriti suoi sia per le fragilità altrui.

Qualche eccesso di zelo nelle continue esternazioni si può facilmente stigmatizzare. Ma, ecco il punto, la par condicio non c’entra proprio nulla.

La povera legge del febbraio del 2000 (sono passati più di vent’anni, e già) è di semplice lettura: non è l’“Ulisse” di Joyce. Eppure, viene evocata come un tormentone. Forse come alibi, mancando argomenti seri.

Va chiarito, intanto, che quel così chiacchierato testo riguarda eminentemente le campagne elettorali.

E non siamo in simili circostanze, essendo stati rinviati gli appuntamenti previsti, dal referendum sul taglio dei parlamentari alle elezioni amministrative.

Sfuggono sia il testo sia il contesto, almeno stando alle improvvide dichiarazioni di chi dovrebbe sapere che talvolta il silenzio è d’oro, soprattutto quando si ricoprono delicati ruoli istituzionali. Il riferimento è al presidente della commissione parlamentare di vigilanza Alberto Barachini e all’omologa funzione apicale della Rai Marcello Foa.

Il primo, del tutto impropriamente e senza neppure convocare la stessa commissione, ha indicato al servizio pubblico la necessità di «riequilibrare». Invito prontamente raccolto dal secondo, lieto di comunicare che il giorno dopo la coppia sovranista aveva ottenuto tre minuti a testa nel Tg1, la testata di maggiore ascolto, che in questo periodo supera del 30% (circa) le medie del 2019.

Per capirci. Il partito radicale, che pure teneva il giorno successivo la «marcia» radiofonica per l’amnistia e contro i disagi nelle carceri, non ha avuto certo attenzione nel Tg della rete ammiraglia di viale Mazzini.

Parliamo dei radicali, ma il discorso si potrebbe ben allargare.

Insomma, per tamponare un’ ipotetica ferita, si sono fatti tagli da macelleria alla correttezza dell’informazione. Vi è stata anche, come è noto, una diretta polemica tra la presidenza del consiglio ed il direttore de «La7» Enrico Mentana (è bravo, non è un censore, ma può sbagliare), per la critica delle critiche rivolta a Conte. È un’altra storia, però.

Prima o poi verrà un altro tempo, chissà. Liberi di pensare ciò che si vuole. Non si nomini, però, la par condicio, tirata per la giacchetta per distogliere dal vulnus vero inferto alla correttezza istituzionale.

È augurabile che la commissione di vigilanza non perda peso e autorevolezza, facendo il verso ad un’Agcom in perenne prorogatio.