Le elezioni del 2022 in Ungheria potrebbero porre fine a un’era. Non è escluso infatti che Fidesz, il partito dell’attuale primo ministro Viktor Orbán in carica dal 2010, alla fine perda. Contro di lui si presenta, per la prima volta, una coalizione che comprende i sei maggiori partiti dell’opposizione, da Párbeszéd, ovvero la nuova sinistra ecologista e liberale a Jobbik, lo stesso partito che fino al 2016 inneggiava al complotto massonico-giudaico incombente sull’Ungheria, che bruciava le bandiere europee in piazza e inneggiava alla difesa della razza. A completare lo schieramento ci sono il quasi defunto Partito Socialista, i liberali di Momentum (che ricordano il Movimento 5 stelle della prima ora), i verdi dell’Lmp e Demokratikus Koalíció, la compagine di Ferenc Gyurcsány l’ex-primo ministro socialista costretto a dimettersi dopo lo scandalo del 2006.

Oggi si terrà il primo turno delle primarie per designare il candidato premier che sfiderà Orbán: per ora i due favoriti sono l’attuale sindaco di Budapest, il progressista Gergely Karácsony (Párbeszéd) e il capo di Jobbik Gábor Vona.

QUANTO PUÒ TENERE una coalizione così? I diretti interessati assicurano che c’è unità di intenti sul programma di governo e che il loro è stato un gesto di responsabilità verso il Paese. L’impressione è che questa volta la scelta fosse tra allearsi o sparire definitivamente.

Infatti, a differenza dei suoi avversari, il capo di Fidesz potrebbe vincere da solo o, come affermano alcuni analisti, potrebbe approfittare della sconfitta per tornare da salvatore della patria quando la coalizione d’opposizione imploderà.

Più che un primo ministro oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese. Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo direttamente o indirettamente l’80% dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita addosso al suo partito e che da 11 anni assicura a Fidesz più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze.

SUL FRONTE INTERNAZIONALE la solida alleanza con i costruttori di auto tedeschi, il gruppo Volkswagen in particolare, assicura al primo ministro magiaro un appoggio strategico fondamentale in seno allo stato leader dell’Ue nonché, secondo l’Istituto Centrale di Statistica ungherese, tra il 9,5 e il 13,5% del Pil nazionale annuo (dati 2019).

È significativo notare che fin dall’insediamento di Orbán, i giornali tedeschi sono stati i suoi più attivi detrattori, con picchi durante la crisi migratoria del 2015 e nella primavera del 2021 contro la legge anti-lgbtq. La stessa cancelliera Angela Merkel non ha mai lesinato le critiche al suo vicino, soprattutto in seguito all’apertura ai migranti e al cambio di rotta sugli Eurobond ma, nonostante tutto, i rapporti commerciali tra i due stati sono rimasti costanti e consistenti.

D’ALTRONDE, SUI MEDIA ungheresi gli attacchi della stampa estera sono (quasi) un motivo di vanto: le democrazie liberali sono in crisi d’identità e Orbán è fiero di essere a capo di una «democrazia illiberale» (così come egli stesso l’ha definita). La propaganda è massiccia e incessante e c’è sempre un nemico in agguato. All’inizio erano i socialisti, poi i migranti, la lobby lgbtq, i rom, l’Unione europea. Senza contare l’anti-semitismo strisciante della classe dirigente che imputa a George Soros tutte le teorie complottiste possibili.

UN’INFATICABILE MACCHINA del fango che ha permesso di approvare la “legge schiavitù”, di controllare i sindacati, di criminalizzare i senzatetto, di smantellare le università e metterle sotto il controllo di fondazioni filo-governative, di imbavagliare i media indipendenti in nome della “sicurezza nazionale”, di ammutolire o ridicolizzare l’opposizione politica interna, di costruire una recinzione elettrificata di 175 chilometri al confine con la Serbia, di decurtare fondi dalla scuola pubblica per assegnarli alle scuole religiose, di impiegare in massa poveri e rom nei lavori pubblici per pochi fiorini al mese e licenziare i dipendenti statali che ora sono disoccupati e credono che «gli zingari gli abbiano rubato il lavoro», di equiparare la pedofilia all’omosessualità. Oltre a determinare un’impennata del costo della vita pauroso: a titolo di esempio si consideri che un insegnante a Budapest spende in media il 70% del suo salario per un affitto e un agente di polizia è spesso costretto ad avere un secondo lavoro come trasportatore o rider per sbarcare il lunario.

Non basterà di certo un’elezione a cambiare tutto ciò, ma potrebbe sempre essere un inizio; ammesso che chi verrà dopo non troverà più conveniente utilizzare gli stessi strumenti che fino a oggi ha tanto criticato.