Ieri era il primo anniversario dall’omicidio della deputata laburista Jo Cox per mano di un esaltato neonazista. Un evento tragico e molto grave, inghiottito nel frattempo da un vortice di fatti ancora più gravi e tragici che lo fanno sembrare lontanissimo nel tempo. La tragedia dickensiana di Grenfell naturalmente, dove si sono lasciati morire soggetti economicamente improduttivi, e prima ancora gli attentati di Manchester e Londra. E ieri per un attimo l’attenzione tornava ancora una volta su Westminster, dove la polizia ha neutralizzato un uomo armato di coltello.

Theresa May ha provato a mettere una pezza al disastro di giovedì, recandosi nell’atmosfera controllata degli ospedali dove sono ricoverati i feriti e in serata, azzardando una visita al quartiere finita in una fuga precipitosa. La sua freddezza caratteriale è una grave mancanza per una cultura dove la beneficenza è un correttivo tardivo e scenografico all’ingiustizia sociale più irreggimentata d’occidente.

E ora la sua permanenza a Downing Street ne risulta ancora più in forse, tenendo conto anche della traballante minoranza su cui sta cercando di bilanciare il suo governo. I colloqui di giovedì con i partiti nordirlandesi sulla questione del power sharing a Belfast hanno confermato la gravità degli ostacoli che attendono il sostegno del Dup al governo May: Gerry Adams, leader storico del Sinn Féin ha detto che l’accordo Tory-Dup metterebbe a repentaglio il Good Friday Agreement su cui si basa la pace nel Paese.

Jeremy Corbyn e John McDonnell, il primo con l’appello alla requisizione delle case sfitte di Kensington per gli sfollati, il secondo convocando quella che si spera sarà una manifestazione addirittura più vasta del milione di persone che marciò contro l’invasione dell’Iraq nel 2003 – ancora oggi record assoluto in un paese che in piazza non è solito scendere – stanno sfruttando politicamente la situazione.

Perché i tagli ai vigili del fuoco, alla sanità, e alle «forze dell’ordine» sono atti naturalmente politici. Come altrettanto lo è – seppur indirettamente – l’aumento dei debiti degli studenti superiori – secondo il Guardian del 17% in un solo anno, raggiungendo la cifra sconvolgente di circa 37mila euro pro capite al momento della laurea (mentre il Times riporta che i rettori delle università ne guadagnano 320mila compresi i contributi pensionistici). Tutte queste gocce stanno facendo traboccare il vaso, rendono improvvisamente immaginabile un futuro diverso. È incredibile quanto sia mutato non solo l’umore del paese, ma anche l’orizzonte politico.

Alla vigilia dell’apertura dei negoziati sulla British Exit, confermati nel frattempo per lunedì, il governo sta ammorbidendo i toni: il capitale politico per cavalcare una hard Brexit è del tutto svanito. Philip Hammond, il cancelliere dello scacchiere inviso agli euroscettici che May ha dovuto suo malgrado mantenere al suo posto dopo il rimpasto, ha detto che il governo cercherà di dare la priorità al lavoro nei negoziati, che è lo stesso che Corbyn va dicendo da mesi. La situazione non consente affatto un braccio di ferro con Bruxelles: il mandato di May è ridotto a ectoplasma.