A Bruxelles David Cameron -il premier inesistente – ha fatto l’ultima cena, ma non la prima colazione.

Si è assiso per l’ultima volta al seggio britannico assieme ai ventisette colleghi europei, ai quali ha detto che la Gran Bretagna non volterà mai del tutto le spalle all’Ue, ci tiene assai agli accordi commerciali, ma che se l’Ue ci tiene altrettanto dovrà fare qualcosa per ridurre i flussi migratori al suo interno, che è un po’ come chiedere a uno chef di fare una frittata senza le uova. La mattina dopo gli altri hanno fatto la colazione di lavoro senza di lui, mentre discutevano i modi e i tempi del distacco.

Cameron se n’è tornato a Londra ieri mattina proprio mentre da Edinburgo atterrava Nicola Sturgeon con una valigia piena di profferte di fedeltà per Juncker e Schulz nel triplo carpiato che cerca di fare la Scozia: uscire da un’Unione per restare nell’altra. Ora i Tories – le cui ricorrenti crisi interne sull’Europa hanno provocato la fine di una partecipazione che durava da quarant’anni – mentre il paese è più spaccato che mai, con recrudescenze razziste e la rispettabile middle class liberale che strilla scandalizzata finendo per spingere quelle che considera masse ignoranti e non globalizzate sempre più in bocca a razzismo e xenofobia – cercano un nuovo leader.

Domani scade il termine per la presentazione delle candidature. L’uomo da battere è lui, Boris Johnson, chiamato solo per nome come si conviene ai leader «di oggi», la figura più berlusconiana finora espressa dalla politica britannica: con meno soldi, più eleganza, molta più cultura ma con un ego paragonabile a quello del signorotto di Arcore.

Fino a qualche tempo fa l’ex sindaco di Londra magnificava i vantaggi della globalizzazione e della libera circolazione di uomini e di merci, prima di fare la scommessa opposta a quella di Cameron, puntando tutta la sua carriera sul cavallo del «leave» al quale avrebbe messo a disposizione la propria efficacia mediatica. Questo non va giù ai benpensanti del suo partito, soprattutto quelli che, come fu la Thatcher, provengono dalla piccola borghesia commerciale o dalla working class e ancora credono nella politica come missione. Per questo gli preferiscono una figura meno eticamente tossica: la ministra dell’Interno Theresa May.

Chi invece vuole volti nuovi e si beve la filastrocca della gioventù al potere potrà scegliere il duo di Sajid Javid, ministro del Commercio di origine pachistana, e Stephen Crabb, anche lui figlio del popolo. I due propugnano la formula dell’«One Nation Conservatism», sorta di paternalismo farlocco di nobili ascendenze (Disraeli) come solo i Tories possono intenderlo e che è stato usato da Cameron per raggiungere la leadership per poi – appena eletto – essere gettato frettolosamente nel distruggidocumenti prima dell’arrivo della polizia.

Politicamente, Javid e Crabb sono due perfetti parvenu, ma se diamo ascolto a Andrew Mitchell – il deputato travolto, pare immeritatamente, dallo scandalo denominato «Plebe» che lo vide contrapposto a un poliziotto di Westminster – il candidato favorito alle elezioni del leader conservatore è quello che non vince mai. I due sono tra l’altro anche dei remainers, cosa che li metterebbe in rotta di collisione con gli exiters del loro stesso partito. C’è poi la ministra dell’Istruzione Nicky Morgan, la quale non ha ancora deciso se candidarsi oppure no; stessa cosa, per quanto riguarda il ministro della Sanità Jeremy Hunt.

Intanto il premier inesistente Cameron si è confrontato con il leader dimezzato dell’opposizione Jeremy Corbyn – tutti i suoi frontbenchers scomparsi nelle retrovie di quello che appare sempre di più come un penoso golpe ai suoi danni – al contraddittorio in aula del mercoledì. Il dimissionato, i cui deputati vorrebbero restasse, ha intimato all’avversario, che resta a tutti i costi mentre i suoi cercano disperatamente di dimissionarlo, citando Cromwell: «For heaven’s sake man, just go» (per l’amor di Dio, vattene). Ragione in più, se mai ce ne fosse stato bisogno, per indurlo a restare a tutti i costi.