Si poteva pensare che la crisi da coronavirus fosse occasione del sorgere di nuove eguaglianze. Invece, e paradossalmente, potrebbe aprire la via a nuove forme di sottili – e nemmeno tanto – discriminazioni. Tutto nasce dall’art. 1, lettere a) e i), del Dpcm 26 aprile 2020.

La prima disposizione prevede come necessario, e quindi consentito, lo spostamento per incontrare i congiunti. Ai quali la lettera i) consente altresì la partecipazione alle cerimonie funebri. Il punto è che nell’ordinamento giuridico troviamo coniugi, parenti, affini, ma non – salvo una menzione posta in altro contesto dall’art. 307 c.p. – il “congiunto”.

Chi è costui? Per l’interprete, può essere facile giungere al coniuge, che potremmo dire è tale per definizione. Si possono poi includere i parenti, in linea sia diretta che collaterale, e – con qualche margine di dubbio, gli affini, come definiti dagli artt. 74 e seguenti del codice civile.

Si aggiungono, altresì, le unioni civili tra persone del medesimo sesso, cui si applicano, per l’art. 1, co. 20, l. 76/2016, le «disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti». Se il coniuge è “congiunto”, lo è anche il partner nella unione civile.

Ma sembra che ci si debba fermare qui. Lo stesso art. 1, co. 20, esclude l’applicabilità di altre norme, non espressamente richiamate. Rimane fuori un mondo vasto: in parte le unioni civili, le famiglie di fatto, e tutto ciò che non rientra in un contesto di rapporti strutturati e definiti. Il termine “congiunto” può essere frutto di distrazione o sciatteria nel drafting del decreto. O forse di una consapevole ambiguità.

L’Italia è un paese forse non troppo bigotto, ma certo non abbastanza laico. La questione ci insegue fin da quando, con una infelice sentenza (138/2010), la Corte costituzionale decise di santificare il matrimonio ex codice civile del 1942, sancendone una insuperabile e intoccabile diversità rispetto a unioni di altro tipo.

Dice la Corte: «Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa». Argomento debolissimo.

La pronuncia della Corte non era neutrale e solo in parte era temperata dal riconoscimento che tra le formazioni sociali ex art. 2 Cost. «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».

Una battaglia mai davvero finita. Chi non ricorda la querelle sulla stepchild adoption e sui limiti della legge 76/2010? Senza particolari polemiche si potrà notare che la parte più retriva e integralista della Chiesa cattolica non ha mai metabolizzato l’innovazione, come oggi non accetta le pur timide aperture di Papa Bergoglio sui sacramenti ai divorziati, giungendo persino alcuni ambienti estremisti a qualificarlo eretico o apostata.

Abbiamo il tratto di una sorda battaglia di retroguardia nel Dpcm? Forse, perché da un punto di vista tecnico la scelta fatta non rispetta i canoni della precauzione e della proporzionalità.

La natura del rapporto tra le persone non influisce in alcun modo sulla misura del rischio. Nulla cambia se le medesime cautele (distanze, assembramenti, etc.) sono prescritte per parenti, conviventi, fidanzati, amici. Pare che nelle ultime ore fonti di Palazzo Chigi suggeriscano una lettura estensiva volta a comprendere fidanzati e affetti variamente assortiti. Benissimo. Ma un chiarimento formale si impone. Per l’apparato sanzionatorio in atto, non possiamo certo affidarci ai buoni sentimenti.

Forse stiamo andando oltre il ragionevole nella ricerca di confini da stabilire e perimetri da difendere. La qualità di fidanzati o di affetti legittimati all’incontro può essere difficile da verificare. Quid juris poi per i partner inconfessabili? Speriamo, infine, che nessun governatore consideri la materia affidata alla potestà regionale residuale ai sensi dell’art. 117 della Costituzione.