Su tutti i media si è ormai affermato un story-telling (l’arte di raccontare storie come strategia persuasiva) del virus ormai insopportabile, cui bisogna ribellarsi. Certo, il manifesto ne è abbastanza immune, forse perché una certa coscienza critica vi trova ancora spazio grazie ai suoi meritevoli artefici che resistono da anni. Ma vi sono aspetti che vanno stigmatizzati e che, in breve, potremmo così elencare.

Il primo riguarda la comunicazione circa il contagio che parte dai numeri quotidianamente proposti dalla Protezione Civile i quali, naturalmente, non sono «neutrali», né tanto meno «oggettivi», ma che si conformano a come la pandemia in atto viene comunemente trattata dai media internazionali.

Detto che «contagiati», «guariti o dimessi» e «deceduti» andrebbero qualificati – e ben sappiamo ormai che non solo a livello internazionale ma persino nel nostro paese non tutti adottano le stesse definizioni – si continua a parlare di curve, plateau, cali, e via dicendo senza troppo specificare di cosa si parla.

Nuovi contagiati sono in aumento dal primo giorno in cui la registrazione è iniziata e certo, ogni giorno, forse, se ne aggiungono di meno. Ma una cosa è chiara: al di là delle previsioni che molti epidemiologi e studiosi hanno già fatto, il virus continuerà a diffondersi. Nel nostro paese non è irrealistico pensare che tra un paio di mesi ne avremo almeno il doppio, così come molti saranno anche i deceduti che andranno ad aggiungersi.

Lo snocciolamento quotidiano nei numeri non sembra aver fatto chiedere a nessuno – tra chi sta governando l’emergenza – che forse qualcosa deve cambiare nel come la stiamo affrontando. Perché ora ci vengono a dire che «quello che conta sono i ricoverati in terapia intensiva»? Perché, però, si segnalano i nuovi interventi, i posti letto in terapia intensiva aggiuntivi che si stanno mettendo in opera come passi avanti? Forse dobbiamo attenderci un’estensione del contagio di dimensioni superiori? C’è da crederlo, ma non viene detto.

Come non viene preso in considerazione che il numero ancora altissimo di «contagiati» a domicilio – non ricoverati – non sono un buon segno, anzi sono un cattivissimo segnale che non stiamo imparando nulla dagli altri (vedi la Germania), ricoverando tutti i possibili casi. Però, per chi non è medico, questa può essere una mera ipotesi accademica, che però non viene contemplata nel dibattito mediatico che emana dal «Comitato tecnico». Dobbiamo noi studiarci i numeri e questionare.

Lo story-telling ci racconta che nessuno era preparato ad una pandemia di queste proporzioni, che tutta l’attrezzatura minima – mascherine, ossigeno, ventilatori – non potevano essere disponibili in grande numero comunque. A parte i tagli alla sanità pubblica, di cui si è già parlato, ma che Protezione Civile di un Paese è se non tiene in stock mascherine, ossigeno e altre forniture, nei suoi magazzini?

Solo i finlandesi, ancora memori delle precauzioni prese ai tempi della guerra fredda, si sono trovati attrezzati. Noi, come molti altri, ci siamo bellamente trovati nella condizione di chi sa che un giorno potrebbe piovere ma non si è mai preoccupato né del mantello né dell’ombrello.

Lo story-telling continua a parlare di riapertura, di fase due e via dicendo. Dopo averci chiuso tutti in casa, cautelativamente – «non sappiamo che altro fare, almeno evitiamo i contatti» – hanno privato milioni di persone di un reddito presente e futuro senza contestualmente dire: ti faccio stare a casa e, intanto, ti mando a domicilio un assegno (non stanno facendo così i famosi tedeschi, invece di lamentarsi dell’Europa?). La libertà? Quella è un privilegio, la salute è più importante.

Ma che senso ha chiudere in casa i poveri residenti di Tricarico o Butera (nessun caso segnalato) come quelli di Alzano e Nembro? E poi, «la riapertura sarà per settori», annunciano. Ma, perché, il virus si muove forse «per settori»? O non piuttosto per fasce di popolazione e luoghi. Perché non operare su quelli piuttosto che costringere tutti ad un inutile confino domestico, quando in tanti (e potenzialmente infetti) sono autorizzati a muoversi perché operano nei settori «giusti»?

Tracceremo i movimenti, ci dicono, con app e dispositivi. Un brivido ci corre giù per la schiena, ma sappiamo che è «a fin di bene» (in barba a chi parla di provvedimenti liberticidi). Come se non disponessero di tutti i big data che ci rendono già tracciabilissimi.

Però, agli effetti psicologici e sociali non ci si pensa. Sono due mesi che non sappiamo nulla di come si trasmette il virus (possibile?), ma sappiamo però che tra i contagiati solo il 25% ha meno di 50 anni (e solo l’1,1% è deceduto). Eppure, devono tutti stare a casa. Al reddito perduto, a mille attività andate in fumo ci penserà il «Cura Italia» e tutti i futuri Comitati.

La narrazione quotidiana parla di ricostruzione, di spirito di conciliazione nuovo. Il «ritorno alla normalità» sarà lento, ci avvertono. L’ultima volta, ci volle un’atroce guerra mondiale e una vera devastazione fisica a metter d’accordo i potenti su un terreno comune. E se la storia insegna, allora non accadrà nulla, purtroppo, prima che la devastazione sia avvenuta.

Sonnambuli, negli ultimi decenni, abbiamo visto spuntare virus dopo virus (questo è il quarto in vent’anni), aumentare le temperature e i livelli dei mari, senza fare nulla per prevenire e cambiare rotta. «Nulla sarà più come prima», certo, ma se dobbiamo tornare a quella «normalità», allora diciamo «no, grazie».