Le ultime notizie parlano di un diritto di prelazione all’acquisto di Rcs fino al 31 maggio. È la decisione del Consiglio di amministrazione della divisione libri della Rizzoli riguardante l’ipotesi di acquisto da parte di Mondadori. Ci sono state, però, nelle ultime settimane prese di posizione contro tale ipotesi. Sono venute da esponenti politici del governo per segnalare la formazione, se l’acquisto andrà in porto, di un colosso dell’editoria che colpirebbe al cuore la libera concorrenza in un settore – l’editoria – che conosce una crisi di lettori, e quindi di vendite, ma anche di idee. Il ministro della cultura Dario Franceschini ha invitato il presidente del consiglio a prendere posizione su una fusione che porterebbe nelle mani di un’unica impresa editoriale il 40 per cento del mercato editoriale italiano. Sullo stessa linea d’onda, l’ex-segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che ha sostenuto la necessità di una presa di posizione del parlamento contro la situazione oligopolistica che sta sempre più caratterizzando la produzione e la vendita dei libri in Italia.

Una presa di posizione, quella di Bersani, che ha suscitato le ire di un giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, che ha la maggioranza delle azioni anche di Mondadori. Il Giornale di Vittorio Feltri ha addirittura dedicato l’apertura del 25 febbraio contro le dichiarazioni di Bersani, evocando il ritorno dei Soviet. Fedele alle sue bizzarre convinzioni sull’astensione della politica dalle «cose economiche», il presidente del consiglio Matteo Renzi, in una intervista all’Espresso ha esternato il suo dispiacere per lo stato (pessimo) dell’arte nell’editoria, ma nulla ha detto sulla fusione tra Mondadori e Rizzoli libri. D’altronde, mai disturbare i manovratori dei poteri forti, in particolar modo quando di mezzo c’è Silvio Berlusconi è la parole d’ordine del presidente del consiglio. Tra scampoli di notizie, malumori l’ipotesi dell’acquisto della divisioni libri di Rizzoli è stata salutata positivamente dalla Borsa valori, che ha premiato i titoli di entrambe le società: più 7,38 per cento per Mondadori, +2,71 per cento per Rcs Mediagroup. Ci sono state prese di posizioni, appelli degli scrittori contro tale ipotesi di fusione.

Nomi «pesanti» come Umberto Eco, Dacia Maraini, Nanni Balestrini hanno sottoscritto, assieme ad altri 44 scrittori del gruppo Rcs libri, un appello affinché l’acquisto non vada in porto, perché la fusione snaturerebbe la fisionomia, l’identità delle casa editrici che fanno parte di Rcs. Allo stesso tempo, nell’appello, viene puntato l’indice contro la concentrazione oligopolistica dell’editoria italiana, dimenticando però che l’oligopolio è già una realtà acquisita nel panorama dell’editoria italiana. Mondadori, Rcs libri, Feltrinelli, il gruppo Mauri Spagnol, Feltrinelli e Giunti controllano il 63 per cento del mercato dei libri in Italia, mentre il restante 37 per cento è polverizzato tra piccoli editori che con difficoltà riescono ad avere visibilità nelle librerie italiano, anch’esse contraddistinte da una elevata concentrazione proprietaria. Mondadori, ad esempio, controlla il 28 per cento del mercato, mentre Rcs il 12 per cento. A Mauri Spanol va il 10,6 per cento, mentre Giunti si assesta al 7,7 per cento. Feltrinelli invece oscilla tra il 5,5 e il 6 per cento. In tempi passati, sono stati molti gli appelli dei piccoli editori contro la struttura oligopolistica del mercato, denunciando i rischi del venir meno della «bibliodiversità» e di un abbassamento della qualità dei libri pubblicati. Appelli finiti sempre nel dimenticatoio.

C’è da dire tuttavia che la «spartizione» del mercato tra pochi gruppi editoriali non ha significato un’omologazione dei titoli pubblicati. Anzi, ogni gruppo editoriale è abbastanza attento alla diversificazione dell’offerta di proposte editoriali. Mondadori, ad esempio, vede lo storico marchio affiancato da quello, altrettanto storico, di Einaudi, da Piemme e da Sperling&Kupfer. Rizzoli libri, invece, oltre il marchio omonimo, vede Bompiani, Etas, Marsilio, Sonzogno, Adelphi e Bur. Sotto l’ombrello di Mauri Spagnol ci sono invece 12 case editrici, da Bollati Boringhieri a Corbaccio, Chiarelettere, Tea, Ponte alle Grazie, Garzanti. Ogni casa editrice ha dunque i suoi autori per coprire ormai una diversificazione della domanda culturale. Nei termini algidi della «triste scienza» dell’economia questo significa che sono gruppi editoriali che puntano sì a una integrazione verticale di alcuni segmenti del processo produttivo – stampa e distribuzione, ad esempio – ma a una diversificazione accentuata del prodotto. In altri termini, più che omologazione sarebbe il caso di parlare di una diversificazione dell’offerta culturale in presenza di una concentrazione editoriale. Da questo punto di vista, la situazione non è molto diversa da quel che accade in altri paesi, anche se la tendenza oligopolistica è «globale», nel senso che ormai i gruppi editoriali più rilevanti operano su scala sovranazionale, puntando all’acquisizioni di marchi editoriali in ogni paese. Il panorama editoriale italiano ha ben poco a vedere con l’idea dell’editore descritta magistralmente da André Schiffrin in alcuni libri che hanno fatto epoca. La concezione di un editore che, come un artigiano, segue la produzione dalla consegna al manoscritto fino alla stampa, ha ceduto il passo a una struttura produttiva di tipo industriale. Da questo punto di vista, la parola magica che viene usata per segnalare la tendenziale contraddizione tra industria culturale e produzione culturale è qualità.

I piccoli e indipendenti editori spesso si qualificano come editori di qualità, in contrapposizione tra una industria attenta invece alle oscillazioni del mercato. A prova di ciò, sono citati spesso la pubblicazione di autori sconosciuti al grande pubblico che, appena hanno conosciuto un successo di mercato, sono stati assoldati dai grandi gruppi editoriali. Al di là di questo indubitabile ruolo di apripista e di talent scout dei piccoli e medi editori, emerge il fatto che la differenziazione dell’offerta editoriale presuppone un diverso modello nella relazione tra autori e produzione editoriale. Non è certo una novità che ormai le maggiori case editrici – tendenza molto evidente negli Stati Uniti, ad esempio – ingaggi veri e propri head hunter affinché registrino, selezionino e segnalino tendenze alimentate dalla cultura di strada, nella speranza di trovare lo scrittore di successo. Stesso discorso vale anche per la saggistica, un settore in caduta vorticosa di vendita, ma che vede un numero spropositato di titoli in vendita. Quel che avviene ai margini dei grandi gruppi editoriali ha molto a che fare con un monitoraggio continuo di quanto avviene nella società.

E’ in questa zona di confine che lavorano le piccole case editrici, sempre in debito di risorse finanziarie e difficoltà di distribuzione dei propri prodotti. Una zona di confine caratterizzata da precarietà diffusa nel rapporto di lavoro e volatilità dei progetti editoriali. E se la precarietà è stata assunta come strumento per ridurre i costi interni ai grandi gruppi editoriali, la volatilità «dei piccoli» è la condizione necessaria per «innovare» il proprio catalogo. Rimane un mistero il perché i piccoli e medi editori non riescono a condividere alcune aspetti del ciclo produttivo e di vendita, dalla distribuzione alla gestione amministrativa, delle scorte in magazzino, alla vendita. Eppure rappresentano un 37 per cento del mercato italiano. Una quota di mercato non lontana da quanto rappresenterebbe il gruppo emergente dalla fusione tra Mondadori e Rcs libri. Ma forse la collaborazione tra questi editori è quella semplicità difficile a farsi.