«Tutte le guerre sono lo stesso, spiegare l’inspiegabile…. Non c’è nulla da raccomandare in una guerra. I governi dicono che è l’ultima risorsa. Spesso è solo la più semplice».
Così, nel 2005, in un’intervista rilasciata a questo giornale, diceva Sydney H. Schanberg, mitico corrispondente dai fronti del sudest asiatico per il New York Times che, nel 1976, vinse un premio Pulizter grazie ai suoi reportage dalla Cambogia, redatti in gran parte dopo essersi rifiutato – in barba alle direttive del suo quotidiano – di abbandonare Phnom Pen prima dell’ingresso dei Khmer Rouge. È di sabato scorso la notizia che Schanberg è stato ucciso da un infarto, a Poughkeepsie, una cittadina a nord di New York. Aveva 82 anni.
Animato da una diffidenza istintiva nei confronti dei poteri, e dei canali di comunicazione ufficiali, Schanberg, contribuì a diffondere in Usa una delle letture più sfumate, complesse e vivide del conflitto cambogiano.

E una lettura non sempre allineata con Washington. Dal libro che documenta quell’ esperienza, vissuta insieme al suo assistente e traduttore Dith Pran, cui il libro è dedicato, venne tratto il film di Norman Jewison The Killing Fields.

Nato in Massachusset nel 1934, e laureato in storia ad Harvard, Shanberg era arrivato al Times come correttore di bozze nel 1959: un anno dopo era stato promosso giornalista. Fece parte della redazione esteri dal 1969, fu prima bureau chief a Delhi, e poi, tra il 1973 e il 1975, incaricato di coprire tutta l’area del sudest asiatico. Tornato a New York dopo l’esperienza in Cambogia, nel 1977, venne nominato caporedattore della pagina metropolitana e poi editorialista. Ma la sua column venne cancellata quando Schanberg criticò la posizione del suo giornale rispetto a un progetto stradale nella città. Da lì, passò a scrivere per il quotidiano Newsday e poi per il Village Voice, dove firmava una limpidissima rubrica sul giornalismo.