Guardate in prospettiva, le elezioni siciliane non sono che una conferma. Da oltre vent’anni la scena politica italiana è dominata da una sostanziale egemonia della destra che è uscita vincitrice dalla crisi della Prima Repubblica ed è riuscita quasi sempre a imporre i suoi modelli e i suoi temi: il discredito della politica, il primato di leader carismatici con forte connotazione demagogica, la sostituzione dei partiti con apparati extrapolitici mutuati da aziende private nel settore dei media, l’antifiscalismo, l’etnocentrismo, il nazionalismo e il sovranismo, la xenofobia, il rifiuto della solidarietà e dell’accoglienza.

Il fenomeno non è solo italiano, ha investito tutto il mondo occidentale fino ad assumere la forma parossistica del trumpismo. Tuttavia, come era già accaduto per il fascismo, l’Italia è stata la prima tra i grandi Paesi occidentale a sperimentare compiutamente questi fenomeni e a vederne l’affermazione per un periodo così lungo.

Nel 1993 si pensava che lo smottamento del vecchio sistema dei partiti aprisse finalmente la strada a una sinistra riformista appena lambita dagli scandali, che era stata capace di cambiare nome e volto mantenendo quasi intatta la sua struttura organizzativa. Era un’illusione. Il fenomeno Berlusconi irruppe sulla scena sconvolgendo gli schemi e sorprendendo tutti per la sua radicalità. Riempì un enorme vuoto sfruttando in maniera spregiudicata le tecniche del marketing applicate alla politica: indagini di mercato, indici di gradimento e sondaggi di opinione.

La storia ci dice che egli agì sotto la spinta di urgenti problemi personali e aziendali, economici e giudiziari, ma indipendentemente da questo e dall’assoluta mediocrità delle sue dotazioni politiche e culturali, egli fu un interprete efficace di tendenze che ancora non si erano rivelate appieno.

Fu il primo a dimostrare come un magnate dei media in posizione oligopolistica possa diventare un leader politico vincente conquistando il potere legislativo e esecutivo e mantenendolo a lungo a dispetto di diverse condanne per reati gravi e in spregio dei principi sostanziali del liberalismo.

Fu con lui che l’idea stessa di fare della politica una professione anche nel senso più nobile assunse connotati irrimediabilmente deteriori. L’immagine più efficace coniata per significare questo disprezzo era quella del “teatrino della politica”, che alludeva alla politica come finzione, come chiacchiericcio vuoto su uno scenario di cartapesta.

Questa svalorizzazione, divenuta luogo comune, indicava un cambiamento profondo rispetto all’ethos repubblicano alimentato dalle tradizioni resistenziali e antifasciste, fondato sulla partecipazione come valore. La Democrazia Cristiana, che aveva inglobato e neutralizzato in se stessa le pulsioni antipolitiche presenti nella società post-bellica, non aveva mai adottato apertamente questa retorica.

Come ha dimostrato un recente saggio di Alessandro Dal Lago (Populismo digitale, Raffaello Cortina editore), il grillismo rappresenta la forma più evoluta di questo moderno populismo che logora la democrazia rappresentativa svuotandola dall’interno.

Anche qui un partito creato dall’alto, un apparato aziendale usato come supporto occulto della politica palese, l’uso sapiente dei media decisivi nella formazione dell’opinione pubblica, una retorica salvifica basata sulla contrapposizione tra un mondo totalmente corrotto e la propria forza rigeneratrice incontaminata in quanto geneticamente estranea alla politica tradizionale. A parte questa autocandidatura e l’indicazione di generiche misure antipauperiste, nessun altro elemento di programma  e di strategia è mai stato enunciato con chiarezza, nel tentativo evidente di raccogliere consensi indifferenziati senza impegnarsi su nessuna scelta: così in merito ai rapporti con l’Europa, alle alleanze nel Parlamento europeo (dove si è verificata la più spettacolare e disinvolta oscillazione tra estrema destra anti europeista e liberali ultra europeisti), alle politiche di accoglienza e integrazione, sulle quali l’atteggiamento è stato sempre reticente se non peggio, fino a sfociare nel lancio della campagna denigratoria nei confronti delle Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio.

Quanto ai diritti civili, il Movimento 5 stelle ha avuto il coraggio di pronunciarsi contro la legge cosiddetta dello Ius soli, col risibile argomento che la questione va risolta a livello europeo. Un partito che non è né di destra né di sinistra è un partito di destra.

Tutto questo ci dice che il berlusconismo non è finito e che l’egemonia della destra iniziata nel 1994 perdura. Due terzi degli italiani – come conferma il dato siciliano – sostengono questo campo. Berlusconi e Salvini, Meloni e Di Maio, tra loro rivali, sono in realtà concorrenti nella stessa tendenza di fondo.

Con il campo dei democratici e della sinistra diviso e sulla difensiva, sulle cui spalle gravano ancora il peso della peggiore crisi economica del dopoguerra e la pressione drammatica dell’ondata migratoria e del dissesto sociale, c’è da temere che le elezioni politiche ormai all’orizzonte segnino un ulteriore passo in questa direzione. Non restano che pochi mesi per tentare di rovesciare questa deprimente prospettiva.