Quanti mali del nostro povero Pianeta si potrebbero curare con 3.800 miliardi di dollari? Purtroppo questo fiume di denaro è stato invece accordato dalle istituzioni finanziarie globali al settore che più sta mettendo a rischio la sopravvivenza della nostra casa comune: quello dei combustibili fossili. Il lasso di tempo entro cui è stata «distribuita» questa cornucopia è quello che va dall’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul Clima, a inizio 2016, fino a tutto il disgraziato 2020.

LO RIVELA IL RAPPORTO Banking on Climate Chaos, redatto dalle sei organizzazioni ambientaliste Rainforest Action Network, Banktrack, Indigenous Environmental Network, Oil Change International, Reclaim Finance e Sierra Club.

SE A DOMINARE LA POCO onorevole classifica di istituzioni finanziarie più amiche di petrolio, gas e carbone ci sono quattro banche statunitensi, con JP Morgan (317 miliardi) incalzata da Citigroup, dal fronte italiano non giungono notizie proprio confortanti.

INTESA SANPAOLO, TRA LE PRIME 30 banche mondiali per asset totali e «banca di sistema» italiana, fra il 2016 e il 2020 ha stanziato 13,7 miliardi di dollari all’industria fossile, la maggioranza dei quali a società che stanno espandendo il loro business nel comparto oil&gas come Eni, Exxon, Novatek, Equinor, Cheniere Energy e Kinder Morgan.

ATTRAVERSO LE LORO ATTIVITA’ esplorative, di produzione o midstream, queste aziende stanno devastando ecosistemi già fragili che, per il rovescio della medaglia, se intaccati ulteriormente potrebbero alimentare a loro volta la crisi climatica in corso.

È IL CASO, PER ESEMPIO, DEI PROGETTI di Eni ed Equinor nel Mare di Barents, all’interno del Circolo polare artico, e di quelli di Novatek nella Penisola di Gydan, nell’Artico russo, che rischiano di causare fuoriuscite di petrolio e metano, nonché di accelerare il sempre più rapido scongelamento del permafrost sulla terraferma.

L’ESPOSIZIONE DI INTESA DESTA particolare preoccupazione per due ragioni. Innanzitutto per una debole strategia di lungo-termine per allinearsi con l’Accordo di Parigi sul clima, mancante della pubblicazione delle emissioni di CO2 associate ai suoi finanziamenti. In seconda battuta, per l’assenza di impegni concreti relativi al settore oil&gas. Nell’anno della COP 26 sul Clima presieduta da Italia e Regno Unito e del summit del G20 in programma a Roma, Intesa avrebbe l’occasione di rimediare alla sua debole politica sui finanziamenti al carbone, rilanciando con delle direttive molto stringenti e amiche del clima su gas e petrolio.

UNICREDIT NON PUO’ INVECE più nascondersi dietro gli impegni presi sul settore del carbone, riconosciuti a livello internazionale come tra i più all’avanguardia in ambito finanziario. Azzerare al 2028 la sua esposizione al più inquinante dei combustibili fossili è sicuramente un primo passo, ma serve a poco se a fare da contraltare ci sono 8 miliardi di dollari accordati a società che espandono il loro business fossile, su cui spiccano Total, Repsol e nuovamente Eni.

PROPRIO TOTAL E’ EMBLEMATICA delle scarse ambizioni della banca di piazza Gae Aulenti in materia di petrolio e gas, che ha una policy deficitaria soprattutto in riferimento al midstream, senza trascurare esplorazione e produzione nelle regioni artiche, escludendo operazioni offshore ma non quelle onshore. I progetti di Total nell’Artico russo – in partenariato con Novatek – si trovano proprio sulla terraferma.

INSOMMA, PER FORNIRE IL LORO CONTRIBUTO alla lotta alla crisi climatica le principali banche italiane devono fare ancora tanta strada, a partire dal totale abbandono dei progetti più devastanti che ancora vengono inaugurati in giro per il Pianeta.

* Re:Common