E’ accaduto realmente ma poniamola come semplice ipotesi. Poniamo cioè che due persone si incontrino per un caffè. Si conoscono da poco ma ciò nonostante viene loro spontaneo scambiarsi confidenze, raccontarsi cose molto private. Una delle persone comincia così a parlare di un’esperienza che l’ha segnata. L’altra ascolta, seppure con sentimenti ambigui, perché se da un lato segue con partecipazione e affetto quella storia, dall’altro la considera con un occhio più distaccato, la valuta cioè come racconto in sé, per la sua potenzialità narrativa.
La ragione di questo suo atteggiamento è semplice: chi ascolta è uno scrittore e il suo mestiere lo porta ormai per istinto a considerare tutto come materiale per un libro. Malgrado la tentazione sia forte, lo scrittore decide tuttavia di non usare quanto ha appena sentito. Pensa alla reazione dell’altra persona nel vedere la sua storia, anzi la sua vita, convertita in oggetto di intrattenimento per sconosciuti.
Trascorso qualche tempo però, leggendo il nuovo libro di un altro scrittore, incappa in un racconto centrato sulla stessa storia cui lui aveva rinunciato in nome della riservatezza e del rispetto. Ciò che avrà pensato lo scrittore si può immaginarlo. Si sarà chiesto se in simili frangenti contino più le ragioni della morale o quelle della letteratura, dubbi per cui non esiste una soluzione unica e definitiva. Tra il rinunciare del tutto a una storia e appropriarsene senza scrupoli c’è di mezzo un mare di compromessi, una moltitudine di opzioni intermedie tanto varie quanto riconducibili tutte alla dicotomia che oppone realtà a finzione.

Scampoli di monologhi
Più si inventa più si rinuncia alla storia altrui, e viceversa. In Resoconto (Einaudi Stile Libero, traduzione incantevole di Anna Nadotti, pp. 185, € 17,00) primo atto di quella che alcuni hanno chiamato «trilogia dell’ascolto», Rachel Cusk sembra proporre questo viceversa all’ennesima potenza.

La protagonista, una scrittrice di mezza età, non rinuncia a nessuna delle storie che varie persone le raccontano nel corso di un viaggio in Grecia, dove va per tenere un seminario di narrativa. La sua appropriazione è così totale che non si preoccupa nemmeno di darle una forma letteraria; lascia al loro stato embrionale scampoli di monologhi incorniciati dalla descrizione dei momenti e dei luoghi in cui sono avvenuti. Scrive in sostanza una sorta di diario dove dominano appunto le conversazioni che hanno dato il là al racconto, e dove lei sembra partecipare soltanto in veste di ascoltatrice. Quando prende la parola è perlopiù per porre domande o fare un’osservazione su ciò che ha sentito; mai per ricambiare le confidenze altrui raccontando qualcosa di sé: le informazioni sul suo conto ci vengono dispensate con il contagocce.

Per un buon tratto la donna sembra essere poco più che un fantasma ascoltatore. Che si chiama Faye lo apprendiamo alla fine del libro. Che oltre a essere scrittrice è anche madre ci viene rivelato di sfuggita e per caso dopo più di trenta pagine. Il lettore in cerca di trame avvincenti troverà tutto ciò straniante, se non addirittura insopportabile. Ammetterà che la qualità della scrittura è alta e l’autrice intelligente, ma concluderà comunque di essersi annoiato, perché a parte un caotico susseguirsi di racconti, di fatto non accade nulla e le vite infelici esposte dai vari personaggi sono tutte normali, esattamente come te le aspetti.

Per contro, il lettore poco o nulla interessato ai labirinti di emozioni e ai colpi di scena; il lettore che vede nei libri una dimora e non una possibilità di evasione lo apprezzerà per le stesse ragioni, ovvero proprio perché, per stare al commento di Jeffrey Eugenides: «Hai la sensazione che qualcuno ti abbia rivelato la verità raccontando tutto e niente al tempo stesso». Sotto molti aspetti, questi due tipi di lettori stanno l’uno all’altro come lo scrittore che rinuncia alla storia sta a quello che non si fa scrupoli: agli antipodi di un’identica medaglia.
La stessa Rachel Cusk è arrivata alla trilogia dell’ascolto attraverso un percorso dalla doppia anima, alternando ai romanzi di pura finzione tre memoir, di cui uno particolarmente personale sulla maternità, nel quale confessava «il deprimente sospetto che un libro sulla maternità non interessi a nessuno, se si escludono le altri madri». Vista la strategia editoriale seguita da Mondadori nel pubblicarlo qualche anno fa – in una collana di varia come fosse un manuale di autoaiuto – il sospetto era più che fondato.

A suo tempo, tra i critici, c’è stato chi ha confuso Rachel Cusk con ciò che ha scritto, un fraintendimento che ha talmente ferito l’autrice da giocare un ruolo non secondario nel cambio di rotta rappresentato dalla trilogia dell’ascolto, accolta con entusiasmo e interpretata come un tentativo di rifondare il romanzo su nuove basi, come il possibile manifesto per una forma di letteratura al negativo, dove la narrazione non proceda secondo dinamiche consuete e lo scrittore sembri scomparire, abbandonandosi al fluire indistinto della realtà.

Ciò è vero soltanto in parte e in superficie. A ben guardare, in Resoconto c’è poco di accidentale. La sua struttura, anche se non esibita, è in effetti forte e ponderata come lo è la prosa magistrale e quasi priva di avverbi di Rachel Cusk. All’apparente realismo di una scrittrice che pare limitarsi a riportare parole altrui è contrapposto un calcolato artificio, il cui fine non è tramutare persone forse realmente incontrate in personaggi immaginari, bensì rivelare quanto sia cambiato il ruolo del raccontare in un’epoca corpuscolare come la nostra. E che Faye, la protagonista, vada in Grecia, terra del mito per antonomasia, la dice lunga in proposito. D’altro canto, nel suo ruolo di semplice ascoltatrice di storie in cui ha parte attiva, Faye può riportare alle mente i grandi narratori extradiegetici del modernismo, quelli di Cuore di tenebra e del Grande Gatsby per esempio. A parti invertite però, ovvero con tanti Kurtz al posto di Marlow e tanti Gatsby al posto di Nick Carraway.

Nessuna aura speciale
Per giunta, le vite di Resoconto – questo romanzo da cui non si torna indietro – non hanno nulla di chimerico o fuori dell’ordinario. Sono vite di normale infelicità e il racconto non le redime, non le cura, non le consola né tantomeno conferisce loro un’aura speciale. Piuttosto le definisce per quel che sono diventate agli occhi di chi le ha vissute: per tutti loro, raccontarsi significa riconoscere la propria prigione anziché individuare una via di fuga, e difatti l’amara constatazione di uno dei Gatsby o Kurtz cui Faye presta ascolto è che: «la fuga non è un dato reale ma solo qualcosa su cui talora capita di fantasticare. Forse … siamo tutti animali dello zoo, e quando vediamo che uno di noi è uscito dal recinto gli urliamo di correre come un matto, anche se non potrà far altro che perdersi».