Un altro grande maestro dello spettacolo se ne va. Patrice Chéreau è stato davvero un grande regista, grandissimo, capace di mettere in rapporto stretto il suo teatro, il suo cinema, le meravigliose opere liriche che ci ha dato negli anni. Stroncato a 68 anni (era nato sulla Loira nel 1944) nella sua casa parigina al Marais da un tumore ai polmoni con cui combatteva da tre anni.

Aveva lavorato fino a poche ore prima. Un grande, fantastico metteur en scene, che era il suo modo per decifrare e ordinare la vita. Fin da ragazzo, e fino all’altro ieri. Figlio di due artisti visivi, aveva amato il teatro fin da bambino, tanto da realizzare a scuola i suoi primi spettacoli. E da esserne così fiero che, liceale al parigino Louis Le Grand, vi invitò i critici dei maggiori giornali francesi. Che vi andarono, e accertarono la rivelazione: pochi anni dopo, poco più che ventenne, otteneva la direzione del teatro di Sartrouville dove dopo la scuola si era insediato a lavorare. Ma la sua ambizione, e il desiderio di perfezionare il mestiere di regista, lo portarono a quella che era allora la massima autorità europea del settore, Strehler al Piccolo di Milano. Una scuderia di altissimo livello, tanto che a fianco a Chéreau c’era un altro allievo di rango, il tedesco Klaus Michael Grüber. E quando sull’onda del ’68 Strehler abbandonò il Piccolo per militare con il gruppo Teatro Azione (e mettere in scena il Fantoccio lusitano di Peter Weiss) il genio di Paolo Grassi affidò all’allievo francese gli spettacoli principali della casa, entrambi dagli esiti trionfali: Splendore e morte di Joaquim Murieta di Neruda, e una indimenticabile Lulu. E Spoleto un Marivaux acclamato per la totale rinuncia ad ogni «maurivaudage».

È un grande regista, e il teatro sembra la sua lingua natìa. Eppure spiazzò me e la mia ingenuità, quando nel ’93 lo incontrai per un ampio lavoro che preparavo su di lui. Nel cafè fumoso di rue des Archives, sotto casa sua, si irrigidì quando gli chiesi cosa cambiava nel suo lavoro nel passaggio dal teatro al cinema. Stava preparando il più impegnativo e costoso dei suoi film, La reine Margot, per il quale Isabelle Adjani si era spesa fuor di misura per ottenere i finanziamenti necessari. Rispose secco, tra una sigaretta e l’altra: «Mi fai questa domanda insensata solo perché di film ne ho girato pochi finora; tra qualche tempo non potrai più farmela, perché sarò un regista e basta». La regia era il «filtro» attraverso cui vedere, e cercare un senso alla vita. Poi con grande affetto e spregiudicatezza, spiegò come girare un film contenesse al suo interno il teatro, anzi le prime prove di una rappresentazione. Quando un attore ha intuito la sua parte, e magari non la padroneggia ancora con la memoria, ma nei gesti e negli occhi sa cosa deve esprimere: fissare quei momenti sulla pellicola, è un buon materiale per il cinema. Lapidario, eppure affilato come un bisturi, che naturalmente ha scavato nel cuore: dei suoi attori, dei personaggi, del mondo attorno a noi.

La sua prima esperienza politica era stata contro la guerra d’Algeria, e da allora era sempre stato nella gauche, totalmente schierato. Senza rinunciare per altro a posizioni anticonformiste, come quando pochi anni fa, durante la lotta degli intermittents che riuscì a bloccare per mesi l’intera cultura francese, compreso il festival d’Avignone, non rinunciò a dichiararsi contrario a quelle rivendicazioni, accusandole più o meno di corporativismo. Come, per fare un solo esempio, [do action=”citazione”]Uno spirito libero, talvolta fino alla solitudine. Autore di spettacoli meravigliosi, che hanno fatto epoca, e che spesso costituiscono di quel titolo il codice di riferimento, da cui è stato poi difficile prescindere.[/do]Les Paravents di Jean Genet nel 1983. O come, sempre a Nanterre (dove ha diretto a lungo, e imposto nel mondo, il Theatre des Amandiers, dopo esser stato dieci anni a Villeurbanne chiamato a dirigere il Theatre National populaire dal fondatore Roger Planchon) è accaduto per l’intera opera di Bernard Marie Koltès, lo scrittore di origine algerina divenuto grazie a Chéreau uno dei massimi drammaturghi del ‘900.

Perché si era reso conto il regista, dopo le magistrali messinscene dei classici, francesi ed europei, e il famosissimo Amleto introdotto da uno stallone nero nella Cour d’honneur avignonese, che era la contemporaneità della scrittura il suo terreno d’elezione. Come anche al cinema del resto, dopo gli esiti sfortunati di Margot al botteghino, nonostante avesse fatto entrare nella leggenda i volti di Adjani e Virna Lisi, e la notte di San Bartolomeo e il sangue degli Ugonotti, che per i francesi restano una ferita simile a quella dell’Algeria o di Vichy. Da allora solo film «intimi», quando addirittura non autobiografici, come il bellissimo Son frère.

Con Koltès era stato un rapporto che andava ben al di là del lavoro, e anche se la lunga agonia dello scrittore malato di Aids aveva fatto nascere tra loro delle ombre, Chéreau ha continuato a stimarlo sopra ogni altro. Tanto da immedesimarsi in prima persona nella sua scrittura da quando, per una necessità di distribuzione, prese il ruolo di uno dei due protagonisti Nella solitudine dei campi di cotone. Ingoffato da baffi, coppola e da una pronunciata gibbosità di scena che nascondevano la sua prestante bellezza, il regista ha portato in giro per anni (dalla Cava di Boulbon all’Arsenale di Venezia) quel dialogo crudele e umanissimo tra un venditore e un compratore di una merce sconosciuta quanto pericolosa: l’inquietudine e la morale, la perversione e la debolezza; in una parola l’umanità di ogni esistenza.

Come il sodalizio con Richard Peduzzi, il suo «occhio», scenografie consustanziate in maniera davvero religiosa alle regie di Chéreau. Con le visite più frequenti a Roma quando questi è stato direttore dell’Accademia di Francia, culminate (per chi scrive) nella commozione del regista quando gli si ricordava il successo romano all’Argentina del suo Murieta. Se era naturale per lui firmare la sceneggiatura dei suoi film, era ancora più forte la libido dell’entrare in scena: che fosse per una lettura, come è spesso accaduto a villa Medici, o per una «interpretazione» (la fremente immedesimazione ne La douleur di Marguerite Duras in occasione del Premio Europa che lo celebrava maestro planetario). Era generoso nello spendersi, consapevole di viaggiare sull’onda della perfezione.

Come era successo nella lirica, il suo terzo «dominio», iniziato perfino prima del cinema. Aveva 32 anni, vero enfant prodige, quando a Bayreuth scardinò i luoghi comuni attorno a Wagner, dando avvio a una tetralogia che ha fatto storia. Con un interlocutore eccelso come Pierre Boulez, con cui ha continuato a lavorare negli anni, anche se ultimamente ha trovato una intesa straordinaria con Daniel Barenboim, da Salisburgo alla Scala, dove dovrebbe arrivare tra poco la Elektra straussiana che ha trionfato l’estate scorsa a Aix en Provence.

Ogni volta riuscendo a scavare in un’opera il suo fulcro più intimo, tagliando l’oleografia e i vezzi del repertorio. Un occhio geniale il suo, nella prosa, nella musica, nel cinema. E destinato a mancarci: di quei maestri della regia di fine secolo non c’è più Grüber, non c’è più Massimo Castri, e nemmeno Pina Bausch, con la quale Chéreau ha condiviso la stessa malattia, lo stesso riserbo, la stessa morte. Quasi che sia il mondo a non voler essere più rappresentato da un occhio lucido e pungente come il loro.