Il luogo a cui gli antichi avevano messo il nome di «città nuova», «tregua dal pericolo», Napoli con tutto il suo bagaglio di effervescenza, vive sotto l’ombra del vulcano. Gianfranco Pannone specialista nel far vivere la terra in modo forse ancora più espressivo della gente che la abita sale sulle falde del Vesuvio per scoprire qualche mistero che ancora non sia stato svelato. Come spiega la guida ai turisti esterefatti: «questa è la zona più popolata d’Europa, vicino a uno dei vulcani più violenti del mondo». Aggredita dai luoghi comuni, dalla cronaca, dal cinema di oggi e di ieri, dalle canzoni, Napoli sembrerebbe materiale intoccabile. Eppure il suo ultimo documentario “Sul Vulcano” che sarà a Locarno in selezione ufficiale fuori concorso il 10 agosto apre nuovi scenari, si avvicina al cratere come a una mitologica entità di cui si ignorano i disegni. Le presenze umane che Pannone sceglie appaiono quasi come sacerdoti di un rito per iniziati, sono circoscritte nelle loro abitazioni sulle falde, unici a vivere in rapporto costante e silenzioso con il pericolo. Napoli già sommersa da altre colate distruttive come l’immondizia, oppure il cemento arrampicato su per le falde del vulcano, non si cura certo di un possibile pericolo oscuro. Eruzioni recenti sono già avvenute nel ’44 e prima ancora nel 1906, eventi di cui vediamo le stupefacenti riprese della distruzione di interi paesi e nuovi crateri spuntati dal nulla. La protezione della città è affidata a San Gennaro, martire decapitato proprio nel Forum Vulcani, la Solfatara di Pozzuoli. La sua statua veniva portata in processione perfino in altri paesi quando proprio non si sapeva più a che santo votarsi, ma nascosta da drappi perché i santi locali non avessero a ingelosirsi per la sua indiscussa supremazia. Alcuni personaggi emblematici sono scelti per la loro particolare sensibilità, perché non distratti dalla bolgia dei consumi, votati più al silenzio e alla meditazione che al caos cittadino. Così l’artista che lavora immerso più che nella materia lavica, nell’oscura minacciosa presenza («La sabbia è nera, le pietre sono nere, il Vesuvio è nero. Forse tu sei già morto in questo contesto») setaccia la sabbia, sceglie le gradazioni e impasta terrore e fatalità, nel preparare con elegante nonchalance la mostra delle sue opere «Razza vesuviana». Qualcuno ha comprato una casa lontato da lì, in caso di improvvisa eruzione, pure se con qualche dubbio di riuscire ad arrivarci (ma «arroviammo?» dove andiamo?). La vita scorre tranquilla tra i lavori agricoli e la cura degli animali, ma chissà quanti squlibri non raccontati, in quell’altra casa diroccata. Altri personaggi compaiono, non secondari, i viaggiatori celebri che hanno lasciato la loro voce su quei pendii, primo tra tutti Leopardi con La ginestra e le sorti del mondo, Majakovskij a fare da prologo, la natura bella e sconvolgente descritta da Curzio Malaparte. Qui le anime precipitano in una voragine mentre «le persone virtuose assomigliano a quelle desolate terre del Piemonte la cui noia ci fa quasi disperare» avverte de Sade in «Juliette, ovvero la prosperità del vizio», Giordano Bruno descrive i profili minacciosi del monte, mentre Matilde Serao immagina il futuro fiammeggiante di questa città appasionata che fu creata nell’amore e morirà degnamente in un’apoteosi di fuoco.