Doverosamente ottimista sul percorso del disegno di legge costituzionale che trasforma il senato in un’assemblea legislativa di amministratori locali, la ministra Maria Elena Boschi teme «una sola cosa». Meglio, una sola categoria: «I professori». Quelli che «in questi trent’anni» avrebbero «bloccato un processo di riforma che oggi invece non è più rinviabile per il nostro paese». Più delle indecisioni degli alleati di Forza Italia, più ancora della ventina di senatori Pd difensori dell’elezione diretta per la camera alta, il governo dichiara di temere l’accademia. E – dopo la pubblicazione dell’appello «verso la svolta autoritaria» firmato in origine e tra gli altri da Rodotà, Carlassare, Pace, Azzariti, Zagrebelsky – individua il suo avversario fuori dal parlamento. Tra chi argomenta opinioni diverse.

L’affondo della neo ministra è tanto aggressivo da provocare qualche difesa d’ufficio anche nel Pd – Fassina dice «no al pensiero unico» e chiede al governo di «rispettare le opinioni diverse, anche quelle dei professoroni»; Sandra Zampa, vicepresidente del partito, dice di provare per l’attacco «sofferenza e disagio». Matteo Renzi intanto sale al Quirinale portando a Napolitano anche il dossier riforme. Il presidente della Repubblica tiene particolarmente alle modifiche costituzionali, alle quali ha legato il suo secondo settennato – che potrebbe avere un termine anticipato di fronte a qualche obiettivo centrato. Se qualche perplessità sulla nuova legge elettorale è trapelata dal Quirinale, non si possono attribuire al presidente obiezioni sull’ipotesi di riforma del senato. Nemmeno le critiche espresse in pubblico dal presidente Grasso, seconda carica dello stato, a commento delle quali, anzi, Napolitano ha trovato il modo di insistere sulla necessità di superare il bicameralismo paritario. L’unica garanzia per un’approvazione rapida del ddl costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri, però, è la tenuta di Forza Italia. Di questo si è parlato ieri al Quirinale: Napolitano ha ascoltato direttamente da Berlusconi la promessa di non far saltare l’accordo, collegata però a richieste personali sulla vicenda giudiziaria che il presidente ha lasciato cadere. Al capo dello stato Renzi ha espresso identica fiducia nel (suo) successo, alla luce del colloquio con gli ambasciatori Verdini e Letta.

Sull’affondo della ministra Boschi, del resto, Berlusconi non trova nulla da ridire. Il disprezzo per le critiche accademiche è il suo. Che siano stati però i professori a fermare le riforme è una ricostruzione tanto azzardata che basta un pizzico di memoria, anche recente, a smentirla. E se non basta ci sono i dossier pubblicati sullo stesso sito del ministero, accanto al profilo della neo ministra. Naturalmente non ha alcun senso mettere assieme in maniera indistinta «i professori», posto che da quando la politica ha scoperto l’urgenza della «grande riforma» costituzionale (di anni ne sono passati quasi quaranta, e all’origine del dibattito c’è proprio un professore allora consigliere di Craxi e poi tra i fondatori del partito di Renzi, Giuliano Amato) abbiamo letto di professori favorevoli a rivedere la Carta per dare più forza al governo e professori contrari. Così come oggi ci sono professori che appoggiano le proposte ad alta velocità di Renzi e professori che ne vedono soprattutto i rischi.

Solo un anno fa, poi, prima il presidente della Repubblica, poi il presidente del Consiglio Letta, hanno chiamato un consistente numero di professori (una quarantina) per riscrivere da capo a piedi la Costituzione del ’48. Un percorso – assai barocco – di riforma è stato avviato, ma non sono state le critiche esterne a fermarlo. Bensì rivolgimenti di Palazzo: il cambio di strategia di Forza Italia e la fine anticipata del governo (imposta da Renzi). La volta precedente, nel 2012, un testo che sembrava mettere tutti d’accordo al senato è crollato in un pomeriggio, quando Berlusconi tornò a innamorarsi del semipresidenzialismo. Prima ancora c’era stato il lungo lavoro attorno alla «bozza Violante», interrotto dalla crisi del governo Prodi II e dallo scioglimento delle camere. E nel 2006 è stato il referendum, dunque il popolo elettore, a bocciare la riforma che erano riusciti a far approvare dal parlamento i «saggi di Lorenzago»: tra loro c’era anche un professore di diritto pubblico, oltre a un avvocato, a un notaio e a un odontotecnico. La bicamerale D’Alema, poi, è storia: furono più i magistrati che i professori a criticarne i lavori. In ogni caso a mandare tutto in fumo fu, anche allora, Berlusconi.