Poche volte accade che il contenuto di un libro sia così perfettamente espresso nella sua forma tipografica, nella sua materialità d’oggetto come in questo ricercato Tutankhamon I tesori della tomba di Zahi Hawass (Einaudi, «Grandi Opere», pp. 296, euro 80,00, fotografie di Sandro Vannini, trad. di Violetta Cordani). È un catalogo, eppure non può sfogliarsi alla maniera corsara, con rapide incursioni, come si consultano solitamente questo genere di libri, giacché in questo caso si tratta di un catalogo, per così dire, «narrativo».
La storia che vi viene raccontata è quella della scoperta della tomba di Tutankhamon, il faraone fanciullo della XVIII Dinastia, incoronato a otto anni e morto a diciotto. Chi nel 1922 la dissotterrò fu Howard Carter, grazie alle sovvenzioni di un annoiato dilettante inglese, George Herbert, Conte di Carnarvon. L’apertura della tomba e il trasferimento dei reperti durarono cinque anni: prima si liberò l’accesso alla scalinata, poi all’anticamera, alla camera funeraria, a quella del tesoro e, infine, s’esplorò l’annesso.
In grandi pagine, quasi da in-folio, Hawass mostra gli oggetti che fecero parte del corredo funebre del faraone nello stesso ordine col quale furono rinvenuti da Carter. I fogli del libro, che si piegano l’uno dentro l’altro come elitre di scarabeo, sembrano alludere alla pratica funeraria egizia di racchiudere gli oggetti in scrigni, racchiusi a loro volta in sacrari dorati, guscio su guscio fino al prezioso gheriglio. Ciò può far pensare a un libro-tomba, simulacro di quella disseppellita nella Valle dei re, nel quale è possibile scoprire le immagini di foglio in foglio, come sarcofagi che s’aprano l’uno nell’altro fino alla crisalide d’oro che racchiude la mummia del faraone fanciullo, Tutankhamon «immagine vivente di Amon». Vieppiù che gli oggetti, oltre che nell’ordine, vengono presentati nella maniera in cui vennero visti per la prima volta dall’archeologo, quando, emergendo dopo molti anni dalle loro latebre, dovettero colpirne gli occhi con un insostenibile getto di luce.
Marco Antonio accecato
Sandro Vannini in queste fotografie ha magistralmente sfilato dalla sua millenaria guaina d’ombra l’oro del Nilo, la cui intensità non era sconosciuta all’Occidente. Nel 31 a. C. Marco Antonio era stato vinto perché accecato dalla luce d’Egitto. Quando ad Azio la regina aveva fatto bruscamente virare le navi, volgendo le spalle alla battaglia, il generale romano l’aveva inseguita, «come anatra selvaggia in foia» dice Shakespeare, abbacinato dalla sua pelle e dai suoi monili. Plutarco racconta del loro primo incontro sul fiume Cidno, quando Cleopatra «assisa sotto al padiglione tessuto ad oro» navigava «sopra una barchetta con la poppa d’oro, con le vele di porpora spiegate, i remi d’argento».
Gli antichi temevano questa potenza aurea dell’Egitto. Che l’intensità del suo Sole fosse capace di far partorire alle sabbie del Nilo una doviziosa genia di mostruosi animali, di draghi, d’ippopotami, d’aspidi e di coccodrilli, era tenuto per certo da Diodoro Siculo e da Lucano. Anche i moralisti latini diffidavano di quelle terre aduste e dolcissime, dai deserti increspati come mari, nelle quali la virtus latina s’era sciolta quasi senza resistenza. Nella cultura egiziana l’oro era legato alla sacralità solare. Il disco dorato che irradia il giovane imperatore, così come lo si vede rappresentato nel Trono d’oro, è il disco solare, l’Aton. Prima che lo stesso Tutankhamon, influenzato dai consiglieri più anziani, ripristinasse il culto degli dei tebani, l’Aton, aveva regnato solitario sulle vastità arenose d’Egitto.
Nel corso della sua storia, l’Occidente ha cercato più volte d’ammansire le divinità egizie e di contenerne la ferocia solare. Per tutto il XVI secolo sfingi e chimere si erano librate sulle pareti dei palazzi in ilari intrecci di forme; più tardi, lo stile Impero, quest’amplificazione della decorazione pompeiana, aveva tentato di aggiogarle alle specchiere e alle testate dei letti, alla maniera che può vedersi negli esempi proposti da Percier e Fontaine nel loro celebre Recueil de décoration intérieure concernant tout ce qui rapporte à l’ameublement. Il XVIII secolo volgeva al tramonto, e Napoleone dalla sua campagna d’Egitto (alla quale aveva partecipato il barone Vivant Denon futuro direttore del Louvre) riportava le spoglie dorate degli dei. Nelle case europee l’oro del Nilo s’addomesticava in più miti bagliori. Aquile dorate, sfingi dorate e dorati leoni si erano acquattati docilmente in interni domestici come quelli della Malmaison, dove abitarono Napoleone e Giuseppina.
Nel 1922, quando l’ingresso alla tomba di Tutankhamon venne scoperto da un umile garzone che stava scavando per fissare al suolo un’anfora d’acqua – con una felice accidentalità non troppo diversa da quella che portò al ritrovamento della Domus aurea – la violenza sacrale di quell’oro non si era per nulla attenuata. Gli Europei ne furono nuovamente soggiogati.
Le affinità con il gusto déco
Sfogliamo le pagine del libro di Hawass: guardiamo i portacosmetici a forma di cartigli, con intarsi in cornalina e pasta di vetro, oppure i ventagli con cartigli o con scene di caccia, in legno decorato con lamina d’oro e intarsiati in pasta di vetro e calcite, quale affinità non si trova col gusto déco di quegli anni per gli smalti puri e vibranti e le raffinate composizioni di tarsie lucenti? Gioiellieri come Boucheron e Mellerio tentarono di riprodurre la faïence egizia, col suo incantevole blu cobalto, e le geometrie, morbide e conchiuse come gocce di latte, dei monili rappresentanti gli dei Toth e Ptah. E se la derivazione di certi motivi di vegetazione stilizzata, palmette, fiori di papiro e di loto, negli interni d’edifici come il Chrysler Building è fin troppo evidente; una suggestione più profonda dall’arte egiziana, o più generalmente da quella ieratica antica, può osservarsi nell’attitudine di divinità assorta che mostrano le figure di Erté; qualcosa come di cerimoniale sacro rivolto in portamento mondano. Gli dei che ornavano i pettorali, le collane e i fregi degli scrigni officiavano una luculenta ritualità cosmica: i babbuini, sacri al dio Toth, reggevano simboli della luna piena o crescente mentre gli scarabei trascinavano dischi solari in cornalina.
Sugli oggetti del corredo funebre, rivestiti di lamine d’oro, era raffigurata l’inclita progenie celeste che aveva presieduto al seppellimento del dio-bambino, Tutankhamon, nel suo sudario di luce. Al sincretismo déco, la tomba del faraone, oltre a un repertorio di motivi ornamentale, recò questa fastosa mitologia aurea. Si pensi a Erté, alle sue creature composte di scintille celesti o alle scenografie dei film di Busby Berkeley. Nel 1934 DeMille avrebbe trattato l’arte egiziana in una maniera che ricorda Le rose di Eliogabalo del pittore inglese Alma-Tadema: la maniera del kitsch. Ognuno ricorderà che nell’omonimo film Cleopatra non poteva volgere il capo senza incrociare un aureo disco solare, come avrebbe voluto per sé la ninfa Clizia. A Hollywood il dio Aton era divenuto un grosso riflettore. Théophile Gautier si lasciò trasportare dal gusto tutto francese per la boutade quando scrisse che in quella monotona vastità dorata, le sfingi dovevano aprire le fauci in immensi sbadigli.
«Quando annunciai i risultati della Tac su Tutankhamon – scrive Hawass – molti credevano che non fosse ormai rimasto altro da scoprire sul faraone fanciullo d’oro. Eppure non è vero, e si continuano a fare appassionanti e nuove scoperte». Il suo libro, dalle didascalie sempre puntuali ed esaustive, ci rende, anche grazie al superbo lavoro fotografico di Vannini, interamente il trauma luminoso dell’Egitto.