Ernesto lavora all’ospedale Sacco di Milano, ieri mattina alle 8 ha smontato dalla seconda notte di fila di lavoro: «La situazione è drammatica – racconta -, negli ultimi tre giorni la Protezione civile ha detto che in Lombardia i casi si sono stabilizzati ma noi non l’abbiamo visto. Arrivano sempre più giovani e in condizioni gravi al punto che faticano a respirare». Il Sacco è un centro di eccellenza per le malattie infettive ma la pandemia l’ha stravolto comunque: «Tutti i reparti sono stati riconvertiti. Ad esempio sono stati uniti ortopedia, medicina e week surgery per i malati Covid-19. La rianimazione ospitava 8, 9 posti. Adesso sono 27, sempre pieni, e vogliono portarli a 30».

PER MEDICI, INFERMIERI, operatori socio sanitari, personale delle pulizie significa un carico di lavoro impressionante: «Sono malati molto complessi, che restano in rianimazione per settimane e hanno bisogno di un’assistenza continua. Già solo la pronazione, cioè metterli a pancia in giù per farli respirare meglio, è molto complicata: sono intubati, magari hanno la dialisi o mille altri presidi. Ci voglio almeno 2 operatori se non 3 con tutte le delicatezze del caso. Addosso hai un camice monouso idrorepellente o la tyvek (la tuta bianca ndr), con quella in 5 o 6 ore butti giù 2 chili solo di sudore. Quando tutto sarà finito si dovrà ragionare sulla burocrazia: dieci firme per avere più medici o infermieri ha reso il nostro lavoro più stressante, più faticoso».

UNO TSUNAMI è quello che descrive Ernesto, una catastrofe che ha investito una struttura che pure era preparata a gestire emergenze sanitarie: «Le prime onde le abbiamo viste a fine gennaio, quando arrivavano pazienti con brutte polmoniti. Poi a febbraio la marea è salita ma le radiografie erano tipiche della malattia e non è suonato il campanello di allarme fino a quando non è stata fatta la diagnosi a Codogno. Da lì in poi abbiamo trattato tutti come potenzialmente positivi al virus ma a quel punto molti dello staff si erano infettati. Il Sistema sanitario ha dato una risposta impressionante. Ringraziamo chiunque ci abbia dato una mano, soprattutto il personale medico cinese, ma la nostra formazione è all’altezza della sfida, il problema è stato la contagiosità del virus».

LE ATTREZZATURE al Sacco ci sono: «Le razionalizziamo perché non sono infinite e sappiamo che mancano in altri ospedali. Ad esempio, se ci sono quattro infermieri vestiti con i dispositivi di sicurezza, sono questi che vanno in giro in rianimazione, pronto soccorso o nei reparti per fare tutti gli interventi necessari. Fai 3 o 4 ore e poi subentra un altro. In modo da non consumare dpi e non sprecare troppe energie nel vestirsi e svestirsi. Non si può andare senza presidi da un paziente, non siamo martiri, eppure ci sono piccoli ospedali, anche in Veneto o in Lombardia, dove il governo ha mandato mascherine tipo panni swiffer». Il rischio è alto ma nessuno si è tirato indietro: «Facciamo molti turni extra, manca il personale per i tagli e il blocco delle assunzioni. Saltiamo i riposi, cancellate le ferie eppure niente lamentale. Anzi i colleghi dalle case di riposo hanno chiesto di rientrare per dare una mano».

I TAMPONI al personale sanitario non sono stati fatti, nonostante gli annunci: «È sbagliato. Dobbiamo proteggerci e proteggere le persone che ci stanno vicine. Tengo la mascherina anche a casa, dobbiamo poter riposare senza l’assillo di infettare i familiari. Invece ti viene il dubbio che ci considerino carne da macello».

E poi c’è lo stress emotivo: «I pazienti e i familiari sopportano un grande dolore. Al mio vicino è morto il padre: “Venga domani che le facciamo vedere la salma”, gli hanno detto. Ma la salma era già stata portata all’obitorio perché il numero di morti è troppo alto. La pandemia ci deve far riflettere: ci vuole la formazione continua anche nei piccoli ospedali, rafforzare la sanità di base e il settore dei soccorritori. Siamo bravissimi a mettere il cerotto ma non arriviamo mai prima della caduta».