Poco meno di un anno fa, nel luglio del 2015, migliaia di persone hanno inscenato una manifestazione davanti al Consolato cinese di Istanbul per protestare contro le restrizioni imposte da Pechino alla celebrazione del ramadan nella Regione Autonoma Uigura del Xinjiang, nel nordovest della Cina.

Ai musulmani uiguri che vivono nella regione erano stati vietati il digiuno e altre forme di devozione previste dalla tradizione islamica. Inutile dire che le proteste non hanno facilitato le relazioni tra i due paesi, che negli ultimi anni hanno sfiorato la crisi diplomatica e difficilmente miglioreranno nel prossimo futuro. In sintesi, Pechino accusa Ankara di organizzare sistematicamente il trasferimento in medio oriente e in particolare in Siria – dove combatterebbero nelle fila dello Stato Islamico in Siria e Iraq – degli uiguri in fuga dalla Cina. I turchi ribattono accusando Pechino di perseguitare sistematicamente gli uiguri, una popolazione musulmana e turcofona ridotta ad una minoranza nella sua patria dalla massiccia immigrazione di cinesi di etnia han.

Il fatto che la Turchia nazionalista e filo-Isis del presidente Recep Tayyp Erdogan, impegnata a contendere ai sauditi l’egemonia sul mondo sunnita e agli iraniani quella sull’Asia Centrale, si sia eretta a paladina dei diritti degli uiguri, è incontestabile. Michael Clarke ha ricordato sul sito web della Jamestown Foundation che nella storia ci sono dei precedenti: «Durante la grande ribellione turco-islamica (1864-1876), guidata dall’avventuriero tajiko Yaqub Beg – scrive Clarke – il sultano ottomano di Istanbul non solo fornì…armi e consiglieri militari, ma gli conferì anche il titolo di Emiro».

In seguito, nel Ventesimo secolo, la Turchia «divenne un rifugio per i nazionalisti uiguri che fuggivano dal Xinjiang» che era stato «pacificamente liberato» dall’esercito cinese.
Non per niente il leader della diaspora uigura Yusuf Alptekin fu particolarmente vicino ai nazionalisti pan-turchi come Suleyman Demirel e Turgut Ozal, vale a dire precursori di Erdogan e della sua politica che tende alla creazione di una «grande Turchia».

Le autorità thailandesi hanno accusato cittadini turchi e uiguri del Xinjiang per l’attentato dell’agosto 2015 al santuario di Erewan a Bangkok, nel quale sono state uccise 20 persone. Il santuario è molto popolare tra i turisti cinesi che visitano la Thailandia e tra le vittime almeno cinque erano cittadini della Repubblica Popolare Cinese.

Oggi la regione – ricca di risorse naturali e strategicamente situata ai confini con l’Asia Centrale e Meridionale – è abitata da circa 10 milioni di han, 9 milioni di uiguri e da un milione di persone appartenenti ad altre minoranze centroasiatiche (tajiki, kirghizi, ecc.). A partire dal 2009, quando almeno 200 persone persero la vita in violenze etniche nella capitale della provincia, Urumqi, la situazione nel Xinjiang non ha fatto che peggiorare.

Dalla cortina di silenzio imposta da Pechino emergono di tanto in tanto notizie di attacchi di uiguri contro cinesi condotti con armi rudimentali, in genere da taglio, e di reazioni sproporzionate delle forze di sicurezza cinesi, che uccidono decine di persone e ne arrestano centinaia. Il più recente di questi è quello che i media cinesi hanno chiamato «l’annientamento di 28 terroristi» nella prefettura di Aksu.

Andando a scavare nella notizia, si scopre che tre degli uccisi erano effettivamente ritenuti responsabili del massacro di decine di civili cinesi, ma gli altri erano membri della loro famiglie, inclusi alcuni bambini.

Pechino accusa per queste azioni l’East Turkestan Islamic Movement (Etim, che usa l’ espressione East Turkestan per riferirsi al Xinjiang), ora trasformatosi nel Turkestan Islamic Party (Tip), la stessa organizzazione che ha combattuto in passato in Afghanistan e ora sarebbe attiva in Siria. Nel Xinjiang, i processi spesso si concludono con condanne a morte – almeno 40 nel 2015 – e si svolgono in segreto e senza che gli accusati abbiano possibilità di difendersi. Emblematica della repressione cinese è la condanna all’ ergastolo che è stata inflitta l’anno scorso al professor Ilham Tohti, un nazionalista uiguro moderato, sulla base di articoli che aveva scritto sul proprio blog.

Alla fine del 2014 nove uiguri e dieci cittadini turchi sono stati arrestati a Shanghai e accusati di gestire un giro di passaporti turchi falsi con i quali gli uiguri raggiungevano vicini Paesi del sudest asiatico e dai qui la Turchia.

Negli ultimi anni migliaia di uiguri hanno lasciato o cercato di lasciare la Cina per stabilirsi all’estero e sicuramente la Turchia è la loro meta preferita.
Non esistono prove del fatto che combattenti uiguri si trovino in Siria. Il giornale governativo cinese Global Times ha scritto che sarebbero circa 300, citando fonti anonime.

La cifra è ritenuta incredibile da esperti come Sean Roberts della George Washington University, secondo il quale «al massimo 20 o 30» uiguri sarebbero stati reclutati dallo Stato Islamico.
In Afghanistan gli estremisti uiguri erano inquadrati con altri gruppi dell’Asia Centrale. La stesso arrangiamento vale probabilmente per i foreign fighters reclutati dall’Isis, e questo crea una confusione che può facilmente portare ad una sopravvalutazione della presenza uigura, dato che la maggioranza di questi combattenti sono ceceni, uzbeki e tajiki.