«Tourists go home». Tutto è iniziato con le scritte sui muri di Barcellona, contemplate con stupore dalle fiumane di visitatori a passeggio per il Barrio Gotico, poi sono arrivate le azioni dimostrative, in bilico tra la protesta e l’atto vandalico. E così si è scatenato il dibattito sulla turismofobia, sulla Spagna che, riassumendo il pensiero della destra liberale che governa il paese, sputa nel piatto in cui mangia: prima un autobus turistico preso d’assalto, bombolette di vernice alla mano, da un gruppo di Arran (associazione di sinistra indipendentista e anticapitalista legata alla Cup, uno dei partiti della coalizione che governa la Catalogna); poi le incursioni notturne per sventrare i copertoni delle biciclette a noleggio, finché la protesta non si è estesa a Palma di Maiorca, con bengala nel porto turistico e coriandoli sui villeggianti accalcati nei ristoranti, per approdare infine nei Paesi baschi, a Vitoria, dove i gruppi giovanili di Sortu (sinistra abertzale) hanno sfilato l’altro ieri per protestare contro «un modello di turismo che genera precarietà».

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L’autobus turistico ricoperto di scritte dal gruppo Arran

EPPURE SOMBRILLA Y LADRILLO, ombrellone e mattone, sono, fin dal franchismo, le due pietre angolari dell’economia spagnola, sopravvissute al regime e alla modernizzazione, come vestigia – anche culturali – di una staticità economica che al di fuori di questo binomio, si traduce nel deserto della ricerca scientifica, della grande iniziativa industriale e degli investimenti tecnologici.

I dati, soprattutto nell’ultimo quinquennio, sono prodigiosi: dal 2012 al 2016, complice la destabilizzazione dell’area mediterranea, il numero annuo di turisti stranieri è passato da 57 a 75 milioni annui (dati ufficiali del ministero del Turismo), in un paese che ha una popolazione stabile di 46 milioni di abitanti. Una risorsa, senza dubbio, ma anche una pressione fortissima che rischia di prostituire totalmente la costa e che sta già sconvolgendo gli equilibri demografici delle grandi città, mentre la Spagna rurale langue in un preoccupante stato di spopolamento e semiabbandono.

CI VORREBBERO pianificazione e controllo, ma al governo del Pp, che deve alimentare con qualche numero la favola della ripresa, l’uovo oggi fa molta più gola della gallina domani; e come al solito, chi può, al riparo di una legislazione che lo consente, prende tutto, lasciando ai cittadini la desolazione di una gentrificazione imposta dall’alto: i centri storici delle città (Barcellona, Madrid e Palma di Maiorca sono forse gli esempi più lampanti) si stanno trasformando in un agglomerato di bar, i quartieri perdono la loro identità con velocità direttamente proporzionale all’aumento del flusso turistico, e qualsiasi attività commerciale che non sia direttamente legata al turismo, muore o viene relegata nella marginalità della periferia, dove si rifugia chi non può permettersi di pagare affitti in vertiginoso aumento: a Palma di Maiorca, in un anno, il canone mensile è aumentato del 23,9%, a Malaga del 23,1 e a Barcellona del 15,8, cifre gonfiate dal dilagare di Airbnb, che ha praticamente monopolizzato il mercato degli affitti turistici (187.000 appartamenti in tutta la Spagna). Un solo dato è sufficiente per inquadrare il parossismo della situazione: il 60% dei barcellonesi guadagna circa 1.200 euro al mese, che è più o meno il costo medio di una casa in centro.
Insomma, per quanto Rajoy dica che «il turismo va coccolato e appoggiato», la Spagna ha un problema legato a un modello turistico insostenibile che “vende” la città come prodotto di consumo, da adattare, pertanto, alle richieste dei turisti-clienti.

EPPURE IL TURISMO come fonte di ricchezza era stato finora un assioma indiscutibile, accettato senza distinzioni di colore politico e, in apparenza, confermato dai numeri. Questo settore, infatti, genera l’11% del Pil e dà lavoro al 13% della popolazione (il 20 in Catalogna). Però bisognerebbe chiedersi come viene distribuita questa ricchezza e che tipo di impieghi sorgono intorno al turismo (che ha generato un quarto di tutti i posti di lavoro creati dal 2013 ad oggi, a dimostrazione di una preoccupante ipertrofia del settore). E la risposta, ovviamente, è sconfortante: la maggior parte di questi lavori sono stagionali, precari e mal pagati, con orari vessatori, utili più a ingrossare le statistiche sull’occupazione che a garantire la sopravvivenza del cameriere di turno. Tant’è che gli scioperi nelle varie categorie di settore, specialmente d’estate, sono frequenti: in questi giorni, è toccato al personale di sicurezza dell’aeroporto di Barcellona.

Per correggere la deriva servirebbero riforme strutturali a lungo termine, ma nessun governo, finora, ha voluto assumersi la responsabilità di un rallentamento, sia pure minimo, di uno dei motori economici del paese. Non è un caso, infatti, che Ada Colau, la sindaca di Barcellona, venga criticata dal governo centrale e dalla stampa neoliberale per la sua battaglia contro il turismo selvaggio.

ANCHE IN MERITO alla creazione della ricchezza bisogna fare dei distinguo. Nel 2016 i turisti che hanno visitato il paese hanno speso un totale di 77 miliardi di euro (+8,3% rispetto al 2015); in media 138 euro per turista al giorno. Però, se da questi 77 miliardi si sottraggono le spese per la pulizia delle spiagge, quelle sanitarie, di polizia, il costo ambientale per il consumo energetico e idrico in un paese cronicamente malato di siccità, la cifra si ridimensiona parecchio.

Insomma: bastano 138 euro per comprare il diritto a calpestare l’anima di una città?