Non c’erano solo il premier Matteo Renzi e un gruppo scelto di ministri alla colazione di lavoro che ieri Giorgio Napolitano ha offerto al Quirinale – Mogherini, Alfano, Orlando, Padoan, Guidi, Galletti, Poletti – e di sottosegretari Graziano Delrio e Gozi, insieme al rappresentante dell’Italia presso la Ue Stefano Sannino e al consigliere diplomatico del premier Armando Varricchio. C’era anche Roberto Gualtieri, l’europarlamentare al secondo mandato che il presidente del consiglio considera il più esperto e competente degli uscenti e ha eletto a uomo di fiducia di tutti i delicati dossier europei. Il suo «sherpa», dicono a Bruxelles: benché dalemiano e giovane turco: da storico pignolo (è vicedirettore dell’Istituto Gramsci) fu proprio lui all’inizio a buttare là a una cronista l’idea del nome della corrente, dai giovani che a fine 800 costrinsero il sultano a tornare alla Costituzione. Gualtieri, secchione, partitista e poco incline alla prima fila, è molto stimato da Schulz e dai colleghi di Bruxelles e Strasburgo. Sul suo sito campeggiano i giudizi lusinghieri su di lui firmati da Martin Schulz. La signora Ashton, alta rappresentante per la politica comunitaria, lo ha appena nominato capo degli osservatori del Kosovo, un paese su cui i dalemiani sono preparati bene (fu D’Alema, da premier, a decidere l’intervento militare nel 1999). Nella scorsa eurolegislatura è stato il capo-negoziatore dei socialisti sulla riforma dell’eurozona: in pratica sa fin dove si possono spingere i partiti fratelli, e quelli avversari, sul cambio delle regole della Ue, economiche e non. Quello che serve a Renzi, deciso a far pesare il suo 40,8 per cento a Bruxelles, dove arriva da unico leader socialista (e democratico) vincente, in un gruppo che invece non ha vinto.

L’indicazione del presidente del gruppo del Pse-S&D spetta, per prassi alla delegazione più folta, quindi all’Italia. E la soluzione Gualtieri sembra quella naturale, e da ieri persino corredata da una preziosa benedizione del Colle.

Se non fosse che da mesi su quella poltrona c’è l’opa dello scoppiettante Gianni Pittella, eurodeputato alla quarta legislatura che con i suoi quasi 214mila voti ha superato la sua capolista Pina Picierno – circoscrizione sud, unico caso nella altrimenti fortunata onda rosa delle europee Pd – forte di una campagna elettorale che dalle primarie del 2013 non si è mai fermata: era candidato segretario, scartato al primo turno ha dato indicazione per Renzi. A capo della delegazione Pd Simona Bonafé, renziana di ferro e campionessa di voti alle europee, sostituirà l’uscente Sassoli. Pittella invece si è autocandidato alla presidenza Pse, ed è sicuro che l’intero gruppo lo sostenga. Le canzonature della rete su una sua approssimativa padronanza delle lingue non ne scalfiscono la granitica convinzione.

Eppure da giorni circola la voce che Renzi preferisca Gualtieri per il delicato ruolo di guida del gruppo europeo, che molto conterà nell’accoglienza delle proposte italiane nel semestre di presidenza. Al premier poco importa la provenienza ’turca’ di Gualtieri. Una provenienza che negli scorsi giorni ha fatto storcere la bocca a qualche bersaniano, preoccupato dall’asse turco-fiorentino alla guida del partito post-europee, dopo l’elezione di Matteo Orfini alla presidenza dell’assemblea («presidenza del Pd», l’ha significativamente definita lo stesso Renzi lo scorso sabato nel suo intervento).

Il punto, per Renzi, è che Gualtieri ha il know how. Cioè le idee chiare su quello che l’Italia può proporre ai suoi partner: un’interpretazione meno rigida delle regole economiche, ha spiegato lo stesso eurodeputato sabato all’Ergife, «chiedendo quella interpretazione intelligente, e nel caso con mediazioni temporanee, già utilizzata per altri stati e comunque scritta nelle regole». In campagna elettorale Gualtieri ha usato parole d’ordine realistiche che non dispiacciono a sinistra: abolizione della Troika «emblema della tecnocrazia», «riforma dei trattati, scorporo dal deficit gli investimenti che servono per i cofinanziamenti dei programmi europei», «rinegoziare il patto di stabilità». «Tutto questo si può fare senza toccare il fiscal compact», spiegava.

Non a caso all’indomani della ’stravittoria’, Renzi ha inviato proprio Gualtieri al primo vertice del Pse, dove il premier italiano era atteso per un brindisi «con spumante italiano», come aveva fatto sapere Schulz. Lui invece era andato a Palazzo Lipsius, al primo incontro con i colleghi capi del governo. Una mossa significativa, una mezza investitura che avrebbe inorgoglito chiunque. Gualtieri invece, con lungimirante understatement, aveva anche evitato di farlo sapere a cronisti.