scorso ha colpito Sultanahmet, è già stato definito un «anno zero» per la Turchia. L’uccisione di 10 turisti, per la maggior parte tedeschi, con il ferimento di altre 15 persone sembra aver messo in estremo allarme il governo. Il paese aveva già assistito, a partire dallo scorso giugno, tre sanguinosi attentati (Diyarbakir, Suruc e Ankara) attribuiti dalle autorità allo Stato islamico (Isis). Ma in tutti e tre i casi si trattava di esecutori di nazionalità turca, mentre le vittime erano vicine al movimento politico curdo, oppure alla sinistra. Questa volta è diverso.

L’attentatore Nabi Fadli (28) è un saudita con cittadianza siriana. La polizia è riuscito a individuarlo subito perché solo una settimana fa aveva fatto richiesta di iscrizione alle liste per i profughi siriani del governo, depositando l’impronta digitale. Non compariva nelle liste dei sospettati membri Isis delle forze di sicurezza. Era accompagnato da altre 4 persone, ora ricercate dalla polizia.

Ma questa volta è diverso anche per la nazionalità delle vittime. Lo si può notare dalla solerzia con cui il ministro dell’Interno Efkan Ala, accanto al suo omologo tedesco Thomas de Maizière, comunicava alla stampa i numeri che testimoniano la lotta del governo turco contro l’Isis, affermando che «una settimana prima dell’attentato» erano «stati fermati 220 membri» dell’organizzazione. Il ministro, cercando di dissipare le accuse per cui si sarebbero efftuati maggiori arresti rivolti al Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) che all’Isis, ha anche aggiunto che «nell’ambito della lotta al terrorismo a oggi sono state arrestate 847 persone di cui una buona parte ha cittadinanza estera», senza tuttavia specificare il numero complessivo degli arresti dei presunti membri dello Stato islamico.

Intanto però anche nella giornata di ieri è stata condotta un’ampia operazione di polizia contro presunte cellule dell’organizzazione jihadista in diverse province del paese, che ha portato al fermo di 69 persone, tre dei quali di nazionalità russa. Poi è arrivata anche la dichiarazione del premier Davutoglu che ha comunicato che altre 4 persone, questa volta collegate direttamente all’attentato di Sultanahmet, erano state arrestate.

Davutoglu ha aggiunto che «sebbene sia stato accertato il collegamento dell’attentatore all’Isis, questa è un’organizzazione tale da poter servire da pedina e qualche volta una formazione intermediaria, un subappaltatore affinché alcune azioni facilmente camuffabili possano essere utilizzate agevolmente». In definitiva il premier ha parlato dei loro sospetti per cui l’Isis sarebbe «sfruttata da certi ambienti», senza specificare altro. Nonostante le parole sibilline di Davutoglu, secondo alcuni analisti il governo questa volta sarà costretto ad andare a fondo nella ricerca dei mandanti dell’attentato – che, va ricordato, non è stato rivendicato dall’Isis.

Così, ad esempio, Soli Ozel che sulle pagine del quotidiano Haberturk scrive che «l’atto terroristico dovrà essere chiarito da tutti i punti di vista, perché questa volta l’obiettivo di conoscerne il background, e le menti che lo hanno organizzato, grazie ai collegamenti che verranno trovati, non è solo richiesta dell’opinione pubblica turca, ma anche di quella internazionale». Ozel che ritiene «privo di senso il fatto che un’organizzazione che utilizza come strumento propagandistico ogni atto barbarico compiuto» la mancata rivendicazione dell’attentato, aggiunge che il fatto avrà serie conseguenze economiche e «politiche, se non verrà chiarito in fretta e sotto tutti gli aspetti».

«Prima o poi sapremo chi sono gli attentatori ciò che non potremo facilmente conoscere è la capacità di azione dell’Isis in Turchia», scrive invece Mehmet Y. Yilmaz su Hurriyet. «È come se stessimo seduti sopra una bomba ad orologeria e la prima causa di questo stato è l’accondiscendenza dimostrata ai gruppi jihadisti per rovesciare Assad», aggiunge il commentatore, ricordando che il tutto avrà anche consegueze economiche di non poco conto. Quello turistico in testa.

Il settore turistico, che ha già subito un duro colpo nella costa mediterranea, in seguito alla recente crisi con la Russia, segnala già nuove perdite. A Istanbul (la terza città più visitata in Europa)come in Cappadocia numerose prenotazioni sono state cancellate. Ma l’«immagine» del paese è messo a repentaglio anche dalla drammatica situazione in atto nel Sudest a maggioranza curda, pargonabile a una guerra civile, tra il Pkk (con i suoi affiliati) e le forze speciali e militari turche. Un situazione che interessa diverse circoscrizioni dove vige il coprifuoco e dove le vittime non riescono nemmeno a essere sepolte dai parenti, perché altrimenti verrebbero colpite. Per dare visibilità alla situazione e denunciare lo stato di violenza e di prevaricazione dei diritti fondamentali, oltre mille accademici turchi e circa 400 docenti universitari stranieri tra cui nomi celebri come noam Chomsky e Judith Butler, hanno sottoscritto una petizione dichiarando che non diventeranno «parte di questo crimine».

Una dichiarazione messa nel mirino dal presidente Erdogan, che nella prima dichiarazione dopo l’attentato cui ha dedicato poco più di 40 secondi, ha attaccato il gruppo di accademici per dieci minuti. Ma la situazione ha assunto una dimensione macabra dopo che il noto boss mafioso Sedat Peker, già condannato per essere stato a capo di un’organizzazione a delinquere, si è rivolto agli accademici affermando che «verseremo il vostro sangue e ci laveremo con esso». Parole che mentre scriviamo non sono ancora state sottoposte alla magistratura.