Non siamo qui mica per divertirci». È questo il modo in cui Deniz Yücel, il giornalista tedesco di origine turca nonché corrispondente da Istanbul della Welt rispondeva agli altri reclusi – attivisti curdi, faccendieri, impiegati del catasto, magistrati e poliziotti incarcerati, gangster – che lo esortavano a mettere per iscritto quanto, giorno dopo giorno, stavano vivendo insieme a lui: in particolare, vale a dire, la quotidianità della prigione. Dal momento che il cronista era stato arrestato con l’accusa di aver «sobillato il popolo» e fatto «propaganda per un’organizzazione terroristica» nel febbraio del 2017. Mantenuta la sua custodia cautelare in carcere per poco meno di un anno sarebbe stato liberato, probabilmente anche grazie alla mobilitazione che ha coinvolto nel frattempo giornalisti e scrittori di tutta Europa, il 18 febbraio 2018.

Il volume, intitolato appunto Wir sind ja nicht zum Spass hier (Nautilus Hamburg, pp. 217), reca inoltre il sottotitolo «Reportage, satire e altri pezzi d’uso»: raccoglie dunque una selezione dei testi redatti dal cronista negli ultimi 13 anni che sono usciti sul settimanale berlinese Jungle World, sulla taz e la Welt: si tratta di articoli sulla Germania, sulla Turchia e quelli – assai recenti – scritti in carcere che hanno in comune la prosa asciutta e scorrevole, i periodi brevi, il ritmo rapido, il lessico essenziale, incisivo e davvero efficace.

RIGUARDO ALLA GERMANIA, Yücel ne osserva attentamente l’evoluzione della lingua, i personaggi della vita politica, i gruppi dell’estrema destra – soprattutto Pegida e AfD. Descrive con affetto e ironia la mentalità, i comportamenti e il curioso tedesco utilizzato dalla comunità turca ma sa riflettere con acume e sensibilità su una narratrice e poeta come l’ebrea-viennese Lili Grün. Prende inoltre risolutamente posizione a favore dei disegnatori e autori di Charlie Hebdo, che ammira e considera vittime di un’ideologia intollerante e, in quanto tale, affine al fascismo.

A proposito invece della Turchia odierna, ne parla alla stregua di un paese completamente folle la cui comunità nazionale sembra ormai estremamente polarizzata: mentre una parte di quest’ultima rivendica la propria adesione ai valori di patria e famiglia, un’altra si oppone al governo in nome di un senso di dignità e solidarietà umana dimostrando inoltre di ricordare bene gli ultimi scandali che hanno scosso il regime. Il quale appare, dal canto suo, sempre pronto a ricorrere alla violenza. Quanto poi alla questione curda, i testi riportati nel libro documentano come Yücel abbia cercato di illustrarne la complessità, ben consapevole degli ostacoli che impediscono al paese di diventare una collettività pluralista nella quale riescano a convivere pacificamente tutte le diverse componenti: sunniti e aleviti, ebrei e cristiani, curdi e turchi, credenti e atei, sostenitori della sinistra e della destra.

La «nuova Turchia» di Erdogan si mostra al contrario clericale, autoritaria e ultracapitalista. Una nazione, conclude l’autore, «nella quale la modernità viene espressa solo dalla lunghezza delle autostrade e dall’altezza dei viadotti».

LE ULTIME PAGINE del libro sono state scritte, invece, nel penitenziario di massima sicurezza in cui il giornalista è stato recluso per quasi un anno. Malgrado i tanti divieti – dal fumo al contatto con l’esterno fino al possesso di una penna – Yücel è riuscito a descrivere dettagliatamente e con efficacia le proprie condizioni carcerarie.

Egli avverte tuttavia la necessità di continuare a svolgere il proprio lavoro di corrispondente: di continuare, cioè, a fornire resoconti, analisi e commenti sul sistema economico e politico turco: sul presunto, vorticoso sviluppo economico come sui migliaia «sospetti membri di organizzazioni terroristiche» che si trovano già in carcere o rischiano di finirci ogni giorno. Di continuare a girare per il paese – da Ankara a Diyarbakir fino ovviamente a Istanbul – nella convinzione che, in periodi come questi, per un giornalista non esista alcun compito più interessante e sensato. Anche se occorre sottolineare come, nella Turchia di Erdogan, un cronista intenzionato a fare bene il proprio lavoro corra costantemente il rischio di essere trattato alla stregua di un criminale