La Turchia oggi «ospita» circa 5 milioni di rifugiati provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan. Nel Paese, questo flusso migratorio che ha causato un sostanziale cambiamento negli equilibri sociali, economici e demografici è stato accompagnato da un sistematico linciaggio mediatico e dalla diffusione di notizie false sui social media. La disumana gestione del fenomeno da parte del governo, insieme al malcontento collettivo legato alle dinamiche interne, hanno portato a dei momenti di vera e propria «caccia al rifugiato» in diverse parti del Paese, che ricordano tristemente i pogrom del passato.

UNA SITUAZIONE, questa, comune nei momenti di crisi nella vita di molti Paesi e non del tutto nuova per la Turchia: sono le stesse città turche a raccontarci, come in un museo a cielo aperto, quelle rapide trasformazioni che hanno modificato negli anni il panorama linguistico e urbano di interi quartieri. Una successione di mutamenti politici, sociali e demografici dentro i quali minoranze e comunità straniere hanno più volte pagato il caro prezzo di un’informazione imbavagliata, manipolata e orientata alla polarizzazione permanente della società.

Quando si parla di rifugiati e migranti in Turchia, bisogna sempre tenere conto del rischio che una distorta comunicazione possa deflagrare in una violenta spirale di ostilità verso minoranze religiose, etniche, linguistiche e comunità straniere. A legare un certo passato alle preoccupazioni del presente sono infatti alcuni elementi di continuità nella costruzione di un linguaggio ostile verso ogni alterità sospettata di essere al servizio di presunte cospirazioni internazionali o di agire contro l’interesse nazionale.

DALL’ANALISI DIACRONICA della stampa nazionalista emerge la costruzione di un nemico immaginario responsabile dei peggiori incubi della nazione dal trattato di Sèvres in poi. Così greci, armeni, curdi, comunisti, persone Lgbtq+, arabi, cristiani, ebrei e aleviti cedono il passo e accompagnano in questo girone dantesco l’ennesima nuova minoranza da aborrire. Più forte è la crisi che attraversa il Paese, maggiore è il desiderio di una società omogenea. E con l’aumentare della paura, cresce esponenzialmente la diffidenza verso gli «altri».

Sebbene ad alimentare un clima d’odio sia spesso una aggressiva dialettica politica, l’informazione è altrettanto responsabile nel diffondere pregiudizi xenofobi e razzisti. In tal senso, c’è una data che simboleggia più di altre la perdita di ogni remora sulla violazione di qualsivoglia deontologia dell’informazione: il 1955. Il 5 settembre di quell’anno un pogrom travolgeva la minoranza ellenofona a seguito di una campagna mediatica orchestrata dal governo, al culmine di un lungo periodo alimentato da fiumi di inchiostro, slogan e trasmissioni radio cariche di odio, menzogne e disprezzo contro i greci di Turchia.

AL GOVERNO DEL PAESE sedeva allora Adnan Menderes, fautore della svolta atlantista turca e responsabile del clima esacerbato nel quale il Paese si ritrovava dopo una prima velleitaria crescita dei consumi trainata dalla de-statalizzazione dell’economia. Le politiche liberiste e la meccanizzazione dell’agricoltura finanziate dal Piano Marshall spinsero migliaia di contadini anatolici verso le grandi città cosmopolite alla ricerca di un salario in un clima sociale monopolizzato dall’anticomunismo di stato, dalla crescente questione cipriota e dalla bomba demografica di una società giovane esclusa dalla vita urbana intercomunitaria.

OGGI, GLI EVENTI che scuotono il Paese ci ricordano molto tristemente i fatti del 1955. Oggi come allora le grandi città si popolano di nuovi cittadini. Questa volta, si tratta di quei milioni di rifugiati che scappano da regimi dittatoriali e guerre: siriani, iracheni e afgani. Oltre a loro, in Turchia ci sono anche parecchi iraniani, armeni, asiatici e africani che cercano rifugio, ormai da tempo.

SECONDO I DATI diffusi dal Ministero degli Interni dal 2014 al 2017, soltanto l’1,37% dei reati commessi in tutto il Paese vede il coinvolgimento dei cittadini siriani. Eppure, sui social media e sui media tradizionali, non passa giorno senza una sistematica criminalizzazione nei loro confronti. Secondo una ricerca del 2017 realizzata dalla fondazione Hrant Dink Vakfi, dopo gli ebrei, i siriani costituiscono il secondo gruppo sistematicamente preso di mira dai media turchi. Secondo l’associazione che lotta per i diritti umani, la IHD, nel 2020 sono stati 14 i casi di violenza razzista e 7 i cittadini siriani assassinati, 3 di questi minorenni.

ILAF RAHMANI, dell’Università degli Studi di Ankara, ha studiato i casi di hate speech contro i rifugiati sulla stampa nazionale nel 2019. Se nell’editoriale del quotidiano Sabah, Engin Ardiç scriveva: «Bisogna aprire i confini e lasciare che i siriani vadano in Europa, così da liberarci dal loro peso economico», Ahmet Hakan su Hurriyet affermava «Quando osservo le persone che vengono da Idlib in Turchia noto che sono tutti maschi e giovani. Non si tratta di gente che scappa da una guerra. Sembrano dei veri militanti. Insomma non ha senso trattarli da rifugiati».

L’INTOLLERANZA e la xenofobia collettiva, uniti al boicottaggio mediatico si sono spesso tradotte in linciaggio fisico. Nel novembre 2017 a Konya sono stati presi di mira diversi negozi siriani. Metin Çorabatır, portavoce dell’Unhcr in Turchia, in un’intervista rilasciata al quotidiano Milliyet ha dichiarato che «In Turchia la società tratta i rifugiati come dei potenziali criminali. Ormai è evidente come il nuovo capro espiatorio siano i siriani residenti in Turchia».

In questi anni sono aumentati i casi di violenza razzista nei confronti dei rifugiati. Il 29 giugno 2019 nel quartiere di Kucukcekmece a Istanbul sono stati presi di mira la macelleria del cittadino siriano Hamoud Shweili e il negozio di abbigliamento dei fratelli siriani Mustafa e Ahmed. Ad Adana, nel settembre dello stesso anno, sono stati danneggiati circa 200 negozi e 60 mezzi privati appartenenti a cittadini siriani residenti in città dove le serrande dei negozi chiusi sono state tappezzate da slogan razzisti. Alla fine delle violenze oltre 70 persone sono state prese in detenzione provvisoria.

IL CASO DI ADANA racchiude in sé una serie di elementi che caratterizzano la storia dei pogrom nei confronti di stranieri, minoranze e rifugiati in Turchia. Le dinamiche, infatti, seguono lo stesso schema: circolazione di notizie false, mobilitazione di cittadini armati e infine aggressioni e linciaggi indiscriminati contro gente inerme. Come ad Adana, dove i residenti convinti che un cittadino siriano avesse molestato un minorenne di 11 anni hanno scatenato il panico contro la comunità araba.

Notizia smentita dalla prefettura a disordini terminati con l’annuncio che il molestatore fosse in realtà un cittadino turco peraltro già agli arresti. Oltretutto, la violenza xenofoba consumata ad Adana è avvenuta indisturbata senza che la polizia intervenisse, come confermato dalla comunità siriana ai microfoni dell’agenzia di stampa Mezopotamya Ajansi. Un altro aspetto, questo, che presenta pericolosi elementi di continuità con i pogrom del passato.

L’ULTIMO CASO è molto recente, dello scorso agosto. Questa volta siamo nel quartiere di Altindag ad Ankara, dove a seguito di una violenta rissa un giovane turco ha perso la vita per mano di un cittadino siriano. La notizia ha portato, in poche ore, centinaia di persone a scendere in strada per vandalizzare negozi e abitazioni di siriani. Questa volta la polizia ha arrestato 76 persone, la metà delle quali già note per precedenti legati alla criminalità organizzata.

Un clima sempre più pesante per le comunità straniere residenti in Turchia, in particolar modo per quelle più vulnerabili, oggi sotto attacco da media e formazioni politiche. In un servizio realizzato dalla redazione in lingua turca del Voice of America, diversi cittadini siriani residenti ad Ankara e Istanbul hanno dichiarato di aver lasciato, per motivi di sicurezza, i quartieri in cui risiedevano a causa di aggressioni di stampo razzista o perché forzatamente deportati dalle forze dell’ordine.

Con l’arrivo di migliaia di afgani in Turchia, il tema della sicurezza di rifugiati e migranti si fa sempre più attuale in un Paese segnato dal malcontento della popolazione per le politiche del governo

Bufale e Atatürk, i fatti del 1955

Alle 13 del 5 settembre 1955 la falsa notizia di un attentato dinamitardo contro la casa natale di Atatürk a Salonicco trasmessa dalla radio statale turca e rilanciata dal quotidiano Istanbul Express scatenò la Septemvriana o «eventi di settembre». Due giornate di violenza che segnarono l’epilogo drammatico della presenza millenaria dei romei, la minoranza ellenofona e ortodossa in Turchia. Camion e autobus trasportarono migliaia di uomini armati nelle principali città turche per devastare fino alle prime luci dell’alba negozi, edifici religiosi, abitazioni e veicoli appartenenti a minoranze, stranieri e a cittadini invisi al governo. Decine le vittime e centinaia le violenze subite da donne e uomini di ogni età, tra cui tanti italo-levantini, che nei mesi e anni successivi lasciarono per sempre la Turchia. Il processo contro i vertici del governo Menderes nel 1961, a seguito del colpo di Stato del 1960, rivelarono le pesanti responsabilità del governo portando alla luce il ruolo dei servizi nella regia delle violenze.