Giornata di voto oggi in Turchia. Un voto segnato dalla stanchezza degli elettori, chiamati per la seconda volta in cinque mesi a rinnovare la composizione del parlamento, ma non per questo meno cruciale per il futuro del Paese.

Una sfida, soprattutto, che riguArda il suggellamento del «sistema presidenziale di fatto» del capo di Stato Recep Tayyip Erdogan, i cui esiti sono tutt’altro che scontati. Molto dipende dalla possibilità o meno dell’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo) di ottenere la maggioranza (276 su 550 seggi) necessaria per governare da solo.

Lo scorso 7 giugno il partito, che ha ottenuto il 40,8% registrando la percentuale più bassa della sua «parabola ascendente», non è più riuscito, per la prima volta in 13 anni, a formare un governo monocolore.

La «sconfitta» del’Akp, ha fatto anche in modo che il progetto presidenzialista di Erdogan, per l’approvazione del quale sarebbero stati necessari almeno 330 deputati, venisse messo nel cassetto.

Ciò tuttavia, non ha impedito al capo di Stato di dichiarare che in Turchia il sistema era diventato «presidenzialista di fatto», dal momento che lui era il primo presidente eletto a suffragio universale. Per questo motivo, secondo molti analisti, una possibile vittoria dell’Akp, creerebbe un avvallamento di questa situazione, ossia del riconoscimento della concentrazione di tutti i poteri nelle mani di un solo uomo.

Nei mesi scorsi l’Akp, grazie agli interventi del presidente Erdogan e alle discordanze emerse tra gli altri tre partiti parlamentari, è riuscito a evitare la formazione di una coalizione. In tal modo è stato messo in piedi un governo ad interim, che ha continuato a tenere in mano le redini del Paese. Pochi mesi in cui sono ricominciati (dopo oltre due anni di tregua) gli scontri armati tra il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e l’esercito turco e si sono verificati gli attentati più sanguinosi della storia turca (Suruc e Ankara). Inoltre, soprattutto nel sudest a maggioranza curda, si sono ripresentate situazioni dove i coprifuoco, misure straordinarie di sicurezza e morti quotidiane sono tornate all’ordine del giorno.

Tuttavia, sebbene il presidente Erdogan si sia da subito dichiarato a favore di elezioni anticipate e del ritorno di «un partito unico» per «dare seguito alla stabilità» nel Paese, tutti gli ultimi sondaggi indicano un risultato molto simile a quello già registrato nelle elezioni del 7 giugno scorso.

I sondaggi danno ormai quasi per certo che il Partito filo-curdo democratico dei popoli (Hdp), principale responsabile della «sconfitta» dell’Akp nelle elezioni precedenti, ripeterà il successo riportato a giugno, dove è riuscito per la prima volta a superare lo sbarramento elettorale del 10%, registrando un sonoro 13%.

Una «vittoria» che ha causato all’Hdp costanti attacchi da parte dei dirigenti Akp. La campagna elettorale dell’Hdp ha dovuto fare i conti con continua mancanza di fondi, numerosi attacchi alle sedi di partito, e il bando da diversi canali televisivi.

Ma la mancanza di fondi e la limitata presenza televisiva ha caratterizzato anche gli altri partiti d’opposizione, come il Chp, (Partito repubblicano del popolo) principale partito d’opposizione che ha riportato il 25% nelle elezioni precedenti, e che secondo gli stessi sondaggi potrebbe aumentare di qualche punto percentuale i suoi voti. I «lupi grigi» del Partito di azione nazionalista (Mhp), che la scorsa volta ha avuto il 16% delle preferenze, potrebbero dal loro canto perdere qualche punto, a favore dell’Akp.

Una probabile conseguenza del «congelamento» da parte del governo Akp delle trattative di pace con i curdi, aspirazione, quest’ultima, fondamentale per il Mhp che concepisce la risoluzione del problema curdo solo in termini militaristici.

Ma per l’opinione pubblica, profondamente provata dallo stato di tensione istituzionale e sociale, nonché dalle crescenti pressioni sulla libertà dei media e di espressione, la ripetizione del risultato elettorale potrebbe trasformarsi in uno stato di ulteriore indefinitezza. Se alcuni osservatori auspicano la formazione di una grande coalizione tra l’Akp e il Chp, altri sottolineano che questa opzione risulta inverosimile, perché il Chp insiste affinché venga riaperto il fascicolo di corruzione, che ha coinvolto diversi nomi illustri dell’Akp nel 2013, per poi essere «archiviato». La stessa condizione è posta anche dal Mhp, che però è indicato da molti, come il candidato numero uno per una coalizione formata dall’Akp, per l’affinità socio-culturale degli elettori delle due formazioni.

Un’altra possibilità, accennata negli ultimi giorni, sarebbe una «scissione» interna all’Akp, dove si unirebbero le voci critiche alla nuova linea «intransigente» del partito (e del presidente Erdogan). Un ventaglio composto da figure come l’ex capo di Stato Abdullah Gül, l’ex vice ministro Bülent Arinç e l’ex ministro dell’economia Ali Babacan che formerebbero un nuovo partito, allo stesso modo in cui nel 2001 si formò lo stesso Akp, staccandosi dal partito islamista Refah.

«Non trovo convincenti simili tesi», commenta l’ipotesi Kürsat Bumin docente alla Università Bilgi, «l’Akp ha raggiunto il potere che possiede oggi appropriandosi di tutti i quadri dello Stato. Dalla burocrazia all’esercito, dalla polizia alla magistratura e al Consiglio superiore della magistratura, tutte le istituzioni stanno con Erdogan. Un Akp così addentro allo Stato, non può dare origine ad un nuovo Akp».

Sebbene il premier Davutoglu tende ad escluderlo – senza troppa convinzione – l’opinione pubblica si chiede se in caso di mancato raggiungimento di una maggioranza governativa il presidente Erdogan, insisterebbe per andare ad una terza tornata elettorale. Una situazione di indefinitezza che numerosi analisti definiscono velenosa per il Paese. Il 2 novembre si vedrà quali di questi scenari prenderanno forma.