Il 16 gennaio 1632, Alessandro Turchi detto l’Orbetto (1578-1649) testimoniò ad un processo le cui carte restituiscono, come nessun’altra fonte è in grado di fare, un vivido affresco della scena pittorica romana, allora straordinariamente vivace. L’imputato era Fabrizio Valguarnera, un nobile palermitano decaduto che nel 1629 aveva rubato dei diamanti a Madrid. A Roma, forte di quella refurtiva, egli aveva trattato con maestri quali Poussin, Cortona, Sacchi, Valentin de Boulogne, Lanfranco, e anche con quel veronese oggi forse meno noto dei suoi colleghi, ma allora sulla cresta dell’onda come loro.
La commissione Valguarnera ci dà proprio la misura del successo di Turchi nella Roma di quel mitico 1630, nel passaggio da primo a pieno Barocco, poiché, come riportato dal pittore, don Fabrizio, in visita alla sua bottega, gli aveva ordinato una Presentazione di Gesù al tempio da dipingersi su una lastra di rame fornita dal committente; e questo per una cifra pattuita di ben duecento scudi. Poussin aveva dipinto per Valguarnera un Trionfo di Flora per novanta scudi e Pietro da Cortona gli aveva venduto per duecento il grandioso Ratto delle Sabine oggi alla Pinacoteca Capitolina: ma Turchi, per un rame assai più piccolo, aveva spuntato quella stessa cifra, ed è evidente che proprio da lui Valguarnera aveva voluto un dipinto eseguito ad hoc, di cui aveva prima approvato il disegno. È vero però che tutti gli artisti di cui si è detto in quegli anni dipinsero anche una delle nuove pale d’altare di San Pietro, completamente ridefinita nel corso del pontificato Barberini, mentre Turchi, che nella sua deposizione aveva dichiarato orgogliosamente di vivere a Roma da diciotto anni, non arrivò a ottenere una commissione tanto prestigiosa; perché?
Colui che, nonostante la censura longhiana, fu il più autorevole intendente d’arte della Roma del Seicento, ovvero Bellori, non menziona mai il nome di Turchi, neanche nella sua ricognizione delle collezioni private cittadine del 1664. Eppure il veronese aveva conquistato l’apprezzamento di una fetta importante dei principi e cardinali romani, come puntualmente ricostruito da Daniela Scaglietti Kelescian nel saggio di apertura del primo, eccellente catalogo ragionato dell’artista (Scripta edizioni, pp. 521,euro 74,00), curato dalla studiosa. E Mancini, il medico collezionista senese, forse il più acuto conoscitore d’arte del suo tempo, nei primi anni venti aveva subito riconosciuto il valore di Turchi, pur non riuscendo a collocarlo in nessuna delle correnti della pittura romana da lui individuate.
D’altronde egli è documentato a Roma solo dal 1616, quando aveva alle spalle una carriera importante in patria, e un linguaggio in parte ormai formato, che nell’Urbe doveva apparire prima di tutto come ‘veneto’, e quindi notevole per l’aspetto coloristico. Passeri, che scriveva intorno agli anni settanta, notava infatti come egli «hebbe sempre gran diletto di fabbricare colle proprie mani alcuni colori come azzurri, e lacche… e si valeva d’alcuni segreti… acciò col tempo non si cangiassero». Turchi, in realtà, fu capace a Roma di guardare sia al naturalismo caravaggesco sia, soprattutto, al linguaggio più idealizzato dei Carracci e seguaci, tanto che in patria egli sarebbe sempre stato lodato come una sorta di Annibale veronese. Ma forse fu proprio questa sua sorta di eclettismo, questa inesausta curiosità, a costituire un limite per la costruzione di una carriera di maestro di prima classe in una scena artistica già popolata da tante figure di prima grandezza e dall’identità ben definita.
Mancini aveva fatto in tempo a descrivere un capolavoro della prima maturità dell’artista, del quale apprezzava il disegno, l’espressione degli affetti e il colorito: a parer suo, non rimaneva nulla da desiderare di più. Ed egli ricordava anche come Turchi eccellesse nei dipinti su pietra di paragone, tipici di Verona, nei quali risaltavano sia i suoi colori saturi, sia il disegno nitido delle figure, con effetti di icasticità ottica degni di un Gentileschi; lo sapeva bene Scipione Borghese, che ne possedeva due. Per questo Valguarnera nel 1630 gli aveva commissionato un dipinto su rame, supporto dalle caratteristiche simili ai paragoni. Il successo riscosso dall’artista gli guadagnò commissioni importanti anche dalla Spagna e dalla Francia, e in quelle occasioni Turchi venne sempre chiamato a gareggiare con i pittori più celebri, da Reni a Ribera, fino a Rubens.
Ma a Roma rimase un po’ un outsider: la sua splendida pala con la Madonna in gloria venerata da san Carlo Borromeo e san Francesco in San Salvatore in Lauro (1620 circa), miscela inedita di sontuoso barocco nei panneggi della Madonna in alto e fisicità caravaggesca negli angeli che la sostengono, veniva criticata già da Passeri, e nella guida di Roma di Titi (1674) gli autori delle pale della chiesa dei Cappuccini, da Lanfranco a Reni, da Cortona a Sacchi, venivano detti famosi o celebri, Turchi era invece menzionato senza enfasi. Anche Lanzi sarebbe stato spiazzato dal veronese, scrivendo che «nell’impasto de’ colori e negli scorti ha molto della scuola lombarda; nel disegno e nella espressione sente della romana; nel colorito della veneta». Quella che oggi ci appare la forza dell’artista, la sua irriducibilità a formule già collaudate, fu forse l’ostacolo che gli impedì l’accesso alla consacrazione: quando gli agenti di Napoleone scandagliavano l’Italia per arricchire il Louvre, da Bologna partirono pale anche di Tiarini, mentre quelle di Turchi rimasero sui loro altari, tanto a Roma quanto a Verona. Nella sua città natale, sia nelle chiese sia nelle raccolte private, egli era stato protagonista della scena, e giustamente lì egli è stato riportato all’attenzione del grande pubblico con la mostra monografica del 1999 di Castelvecchio, curata sempre dalla Scaglietti, che già aveva lavorato a quella memorabile curata da Magagnato nel 1974, Cinquant’anni di pittura veronese 1580-1630. Da allora sul mercato sono nel tempo riaffiorati tanti capolavori, come il David con la testa di Golia, raffinata e luminosa variazione su un tema caro a Caravaggio e ai suoi emuli, depurato qui da ogni accento macabro.
Ora finalmente tutti questi dipinti sono riuniti (ben 214 numeri di catalogo) a ricostruire un percorso unico e coerente: Turchi, come un altro irregolare di genio quale Guido Cagnacci, è infatti pittore sì inclassificabile, ma anche riconoscibilissimo.