Il sessantesimo anniversario dell’accordo sull’immigrazione tra la Repubblica federale tedesca (Rft) e la Turchia è stato l’evento di questo autunno tra esposizioni, dibattiti e convegni. Ne abbiamo parlato con Francesco Vizzarri, studioso delle migrazioni e storico contemporaneista all’Università Justus Liebig di Giessen in Germania.

Museologia celebrativa o momento collettivo di «educazione alle migrazioni»?

Negli ultimi anni, soprattutto come conseguenza della cosiddetta «crisi migratoria» del 2015, il tema «migrazione» ha visto in Germania una congiuntura molto positiva. Lo dimostrano il numero crescente di pubblicazioni e convegni scientifici, progetti di ricerca, sia in ambito storico che sociale. Analogamente a quanto accaduto in occasione del 60mo anniversario della firma dell’accordo bilaterale italo-tedesco, anche quest’anno le istituzioni e la società civile hanno inteso ricordare con numerosi progetti museali, iniziative culturali e rassegne artistico-musicali la firma dell’accordo tra Berlino e Ankara.
Da menzionare, per risonanza mediatica e positive recensioni, sono due mostre fotografiche appena conclusesi: la prima intitolata Noi siamo di qui! Vite turco-tedesche nel 1990, con scatti del fotografo turco Ergun Çagatay; la seconda In situ: storie fotografiche di migrazione, organizzata dal Museo Ludwig di Colonia in collaborazione con il DOMiD (Centro di documentazione e Museo della migrazione in Germania). In entrambe le iniziative, i curatori hanno rinunciato a un approccio puramente “museologico” della migrazione a favore di un coinvolgendo dei migranti stessi e della società civile nella preparazione e gestione delle mostre. Un’apertura a un modello di museo “partecipativo” che è andato a stimolare momenti di incontro soprattutto con le scuole (numerose) coinvolte.

Accordi simili furono siglati con altri Paesi mediterranei, tra cui l’Italia. Cosa rimane oggi del tessuto sociale, sindacale, culturale e associativo della comunità italiana di Germania?

Rispetto alla storia della migrazione turca verso la Rft, quella italiana mostra alcune differenze sostanziali, in quanto i primissimi flussi migratori iniziarono all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale, per poi intensificarsi dopo la firma dell’Accordo del 1955. Gli italiani in Germania, inoltre – come recenti ricerche storiche dimostrano – stabilirono da subito degli stili di vita transnazionali, potendosi muovere in forza della Libera Circolazione europea entrata in vigore negli anni Sessanta, con meno difficoltà rispetto ad altri gruppi etnici residenti in Germania. Questo determinò una precisa stabilizzazione di reti migratorie molto estese e diffuse sul territorio. Inoltre, i lavoratori italiani potevano contare, al loro arrivo, non solo sui Consolati per i loro problemi, ma anche su patronati, missioni cattoliche, uffici di assistenza della Caritas e – a partire dalla fine degli anni Sessanta – anche sulla presenza di grandi associazioni migranti italiane tra cui le Acli e la Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie, tra i cui fondatori – lo ricordo – vi era Carlo Levi). L’esistenza di una rete di attori sociali e politici non-governativi determinò una diversificazione e moltiplicazione di pratiche culturali, sociali e familiari che perdurò per almeno trent’anni. Nel corso degli anni Novanta, in seguito alla Riunificazione tedesca ma soprattutto al Trattato di Maastricht, la migrazione italiana in Germania subì una profonda trasformazione, seguendo tracciati e percorsi più “individuali” e personalizzati, e meno collettivi.

Di quel (ricco) tessuto sociale, culturale e associativo rimane ben poco, anche alla luce del fatto che i tradizionali canali di assistenza per gli italiani all’estero sono stati negli ultimi dieci anni progressivamente sostituiti da social network e siti internet.

La compagine governativa appena insediatasi a Berlino ci dice tanto sulle evidenti capacità della comunità turca di diventare negli anni classe dirigente in una società, quella tedesca, dove altre comunità, tra cui l’italiana, hanno faticato a esprimere dei riferimenti politici e imprenditoriali.

Alcuni studiosi identificano nel cosiddetto Anwerbestopp (lo stop dei reclutamenti di forza lavoro all’estero, voluto dal gabinetto federale di Willy Brandt nel 1973) il punto di “cesura” o meglio di conclusione della cosiddetta migrazione controllata dei Gastarbeiter, i lavoratori ospiti. A risentirne furono soprattutto le componenti immigratorie di provenienza extra-comunitaria, tra cui molte famiglie di origine turca, le quali decisero di stabilirsi durevolmente in Germania. La diretta conseguenza di questa decisione fu che i figli dei Gastarbeiter turchi si iscrissero subito e senza grandi problemi alle scuole tedesche, integrandosi da subito e soprattutto imparando il tedesco come lingua principale.

Di contro, gli italiani, che godevano già dal 1968 del regime di libera circolazione nell’area Cee, svilupparono nel corso degli anni Settanta e Ottanta stili di vita più accentuatamente transnazionali, potendosi muovere con maggiori libertà tra i confini intra-europei. Questo andò ad accentuare i già presenti problemi di mancata o minore integrazione degli scolari italiani nelle scuole tedesche, una loro propensione a parlare italiano (non solo in famiglia, ma anche in società) e un generale ritardo nello sviluppare un vero “bilinguismo” ancora oggi – come allora – prerequisito fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro e all’istruzione universitaria e dunque anche alla carriera politica. Tuttavia, su questi temi, occorrono maggiori studi, non solo di natura quantitativa e statistica, bensì anche di natura storico-sociale.

Come si costruisce una memoria delle migrazioni sui temi della giustizia sociale, della lotta per i diritti e dell’integrazione educativa?

Credo vi siano due strade maestre da intraprendere. Da un lato una più stretta collaborazione tra istituzioni, scuole e associazioni culturali che si impegnano nel sociale e nella difesa dei diritti delle cosiddette “minoranze”. Dall’altra è fondamentale, a mio avviso, recuperare quel “patrimonio culturale” di testimonianze dirette dei migranti, attraverso progetti scolastici ed educativi che coinvolgano gli studenti nella realizzazione di interviste e nella raccolta di materiale documentale.

La società italiana, così come quella tedesca, sono a tutti gli effetti “multiculturali” e un dialogo civile non può che reggersi sulla conoscenza delle diversità etniche, religiose e culturali delle diverse componenti sociali.

 

Dortmund 1981, corteo di immigrati turchi contro la giunta militare di Ankara (Ap)