Il volume Campati per aria di Mauro Van Aken (Elèuthera, pp. 272, euro 18) è uno straordinario percorso di ricerca antropologica che ha come oggetto il cielo, divenuto in sei capitoli un vero e proprio «terreno», luogo in cui i fenomeni atmosferici vengono reinterpretati come fatti culturali o, per dirla con Marcel Mauss, fatti sociali totali.

Noi oggi non guardiamo più il cielo tentando di carpirne segreti, presagi o semplicemente tempi di semina, ma leggiamo il meteo sugli smartphone per tentare di prevederne i capricci. In altre parole, non abbiamo un rapporto col tempo atmosferico, così come non l’abbiamo più con ciò che chiamiamo natura.

I SAPERI LOCALI metereologici che ancora residuano nel mondo – che sia in Palestina o tra le vigne piemontesi – non sono, e mai lo sono stati, solo predittivi, ma complesse strategie che orientano pragmaticamente i lavori della terra; trasformano i vari calendari agricoli o pastorali in tempi sociali condivisi; tengono viva la memoria degli inevitabili rischi legati al mondo della natura: basti pensare alle problematiche legate ai ghiacciai, ai fenomeni franosi, alle siccità o alle bombe d’acqua.

I rituali di rain-making per far scendere o impedire la pioggia, analizzati nel capitolo «Le molteplici costruzioni culturali del clima», ad esempio, non sono atti rituali di un passato mondo magico, ma azioni corali che tendono a rafforzare il legame con il fabbisogno alimentare di una comunità e a coordinarne la risposta di fronte a sempre più frequenti fenomeni di siccità o alluvioni.

Perché prevedere le piogge – scrive Van Aken – non significa parlare «solo di acqua ma di strutture di significato e di senso comunitario davanti al rischio di crisi, morale e pragmatico assieme». I cambiamenti climatici analizzati nel volume sono inseriti nel contesto globale di un libero mercato dove ogni limite continua a essere percepito come ostacolo da superare, come un fastidioso intoppo a sorti progressive che ci hanno portato dove noi ora siamo, come se il cielo, l’intera natura, fosse altro da noi. Invece i saperi locali sul clima coinvolgono tutto l’ambiente che ci circonda, gli altri esseri viventi con cui siamo interdipendenti e la biodiversità, con i suoi tempi e le sue inevitabili alterazioni, che siano il comportamento e le migrazioni degli uccelli, le nuove specie d’insetti o virus che ci colonizzano o nuove forme di nuvole che si vedono nel cielo.

PERCHÉ I CAMBIAMENTI climatici sono sempre imbricati in un contesto, nonostante la continua rimozione collettiva che ne fa fenomeni globali ma lontani, oppure inesistenti. Ma negare qualcosa, lo sappiamo dalla nostra personale esperienza psichica, è un lavoro faticoso che costa troppa energia, destinato al fallimento. Quell’«aria» citata nel titolo non è solo un luogo in cui sversano i combustibili fossili dell’industrializzazione, incastrati in un’ininterrotta catena di sfruttamento, trasformazione e smaltimento delle merci, ma un complesso mondo di significati che s’identifica con lo stesso concetto di cultura, qualunque sia il significato che vogliamo dargli.