Gli scaffali sono desolatamente vuoti come nella Germania Est prima della caduta del muro. Qualche pacco di pasta, alcuni liquori evidentemente mai venduti. «Si fa prima a dire cosa resta, di cosa manca: non ci sono nemmeno le mele!», protesta Giovanni come se in «Good Bye Lenin» fossero finiti i cetriolini sott’aceto dello Spreewald.

LA DESOLAZIONE regna sovrana nel punto vendita Tuodì di via Ginori a Testaccio a Roma. Così come nei 400 cento punti vendita della catena sparsi su tutta la Penisola (solo Sardegna e Calabria sono scoperte) molto presenti in Veneto e Toscana.

Anzi, ben 123 di questi in 14 regioni sono chiusi dal 12 luglio, giorno in cui la proprietà della famiglia romana Faranda ha comunicato ai sindacati «la procedura di concordato preventivo in continuità» per evitare istanze di fallimento dai (tanti) creditori per tentare di salvare la società. Che ha appena festeggiato i 20 anni «di storia e di successo», «puntando su un’assoluta convenienza di prezzo» e «prodotti freschi selezionati con cura».

Se i malcapitati clienti non abituali rimangono smarriti e non capiscono la ragione del «deserto», i 4 mila dipendenti continuano a dire: «Non sappiamo niente, l’azienda non ci dice niente», come racconta Mario mentre apre il negozio «di taglio medio» a Testaccio.

SARÀ IL GIORNO DELLA VERITÀ oggi per loro. Alle 11 al ministero dello Sviluppo economico si terrà il tavolo fra sindacati e il commissario già nominato dal tribunale di Roma che dovrà illustrare il suo piano industriale per evitare la messa in liquidazione totale. Ma di certo le notizie non saranno buone.

«Ci aspettiamo almeno qualche certezza, ci auguriamo la continuità aziendale e, in caso di chiusure di altri punti vendita, la copertura per i dipendenti tramite la cassa integrazione straordinaria», spiega Giovanni Dalò che per la Filcams Cgil sta seguendo la vertenza nazionale. La Uiltucs parla di possibile «riapertura a settembre», ma ad oggi appare un miraggio.

LA STRANEZZA DELLA VICENDA sta proprio nell’inerzia che colpisce gli attori in gioco. Il presidente e amministratore delegato Antonino Faranda fin da marzo è chiuso in un silenzio impenetrabile nella sede di Roma.

Dopo tre anni di piani di rientro per tentare di risanare l’azienda, il gruppo ha registrato ricavi per quasi 600 milioni e nel 2016 ha perso altri 10 milioni a fronte di debiti lordi per 350 milioni, di cui circa la metà con il sistema bancario (in particolare con Bnl-BnpParibas, Popolare Vicenza e Intesa Sanpaolo) puntando sull’advisor Rothschild per la vendita in blocco.

Nonostante gli interessamenti di molti gruppi (a partire dai tedeschi di Aldi e dagli italiani di Eurospin) a inizio luglio Faranda ha dovuto alzare bandiera bianca sotto la pressione dei tanti fornitori che non venivano pagati da mesi. Senza voler rispondere a il manifesto su quali sono le cause e le prospettive di questa situazione disperata: mai negli ultimi decenni una catena di distribuzione tanto grande (la sesta in Italia tra la distribuzione cosiddetta media con 1,3 milioni di clienti alla settimana dichiarati) era arrivata a chiudere.

«DA PIÙ DI UN MESE i fornitori consegnano a singhiozzo, nelle ultime settimane ancora meno. Arriva un po’ di frutta, qualche verdura, ma i clienti abituali ormai ci hanno lasciato: nelle ultime settimane abbiamo perso il 90 per cento degli incassi», spiega Mario, 35 anni dipendente a tempo indeterminato a 1.300 euro al mese con contratto del commercio. Lui e chi ha il suo contratto è più garantito.

Peggio stanno coloro che fanno parte «delle cooperative che gestiscono ormai 200 punti vendita, perché sono precari o soci con contratto Multiservizi molto peggiore, sebbene – specifica Dalò – la maggior parte di questi punti vendita ha potuto sganciarsi dai contratti di fornitura e ora ha gli scaffali pieni». Poi ci sono «gli esterni», come Adriana che sta alla panetteria del negozio di Testaccio. Simbolo di come anche i supermecati siano diventati dei luoghi di lavoro simil «giungla contrattuale», lei lavora per la società che gestisce le panetterie di molte catene: «Noi non abbiamo problemi di fornitura: il pane è nostro ma risentiamo naturalmente dei pochi clienti che entrano nel supermercato. Io sono abbastanza tranquilla: se chiudono qua mi spostano in un altro supermercato di un’altra catena», racconta.

SE NON APATIA, i sindacati dimostrano almeno poca combattività. Nonostante «una sindacalizzazione alta» la protesta dei dipendenti è ancora limitata. Solo in Toscana la rabbia per il rischio di perdere il lavoro ha portato il prefetto di Lucca a convocare un tavolo, mentre la deputata del Pd, Raffaella Mariani, ha presentato proprio una interrogazione al ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. «Sì, io e quasi tutti noi 8 dipendenti siamo iscritti al sindacato – racconta Mario – ma in questi mesi non sapevamo come comportarci. I capi non ci dicono niente ma perché non sanno niente neanche loro. Abbiamo ridotto gli orari e i turni, smaltito le ferie arretrate e i permessi. Lo stipendio di giugno è arrivato anche se in ritardo e quello a molti è bastato per non protestare ulteriormente», cerca di motivare l’inspiegabile apatia dei colleghi: solo 4 ore di sciopero lo scorso 7 luglio. Per oggi è previsto un presidio sotto il ministero ma «per non più di 400 lavoratori», spiegano i sindacati.

NELL’EPOCA DEI CARREFOUR aperti 24 ore su 24, Tuodì è costretto a chiudere: niente orario continuato (chiusura dalle 13 alle 16) e aperture domenicali abolite, come da cartelli sulla vetrina. E qui l’apatia colpisce anche i clienti che entrano distrattamente e non si chiedono il perché di questa situazione.

Ma da dove viene questa crisi? Anche su questo non ci sono certezze. L’impressione è che la famiglia Faranda abbia fatto il classico «passo più lungo della gamba»: acquisti di punti vendita a bizzeffe e prezzi troppo bassi.

C’è chi considera Tuodì un «discount» e invece lo trovi in pieno centro di Roma (apertura a marzo a via Barberini) con prodotti selezionati e di alto livello. Altri invece addossano la colpa della crisi alla Coop: nel 2008 Tuodì comprò la catena Dico dal gigante della cooperazione ad un prezzo troppo alto per «costi, oneri e passività». In ballo c’è un arbitrato al tribunale di Milano, ma le cifre sono molto più basse rispetto al buco da 400 milioni.

Oggi si spera di saperne di più. Sempre che l’apatia non colpisca anche il ministero dello Sviluppo economico.