Il 14 gennaio 2011 Ben Ali lasciava Tunisi per fuggire in Arabia Saudita. Dieci anni dopo, la Tunisia non può festeggiare l’anniversario della sua rivoluzione. Più di duemila persone si sarebbero dovute riunire ieri in Avenue Bourguiba per commemorare la caduta della dittatura, ma un annuncio imprevisto del ministro della Sanità le ha costrette a rinunciare alla manifestazione che ogni anno si tiene lungo la via principale di Tunisi.

Proprio a partire da questo 14 gennaio, per un periodo di soli quattro giorni, nel paese è tornato il lockdown a causa di un nuovo aumento dei casi di Covid-19 (più di 3500 nelle ultime 24 ore). Una scelta che fa storcere il naso ai pochi passanti che si incontrano per le vie centrali della capitale.

SE PER QUALCUNO «la rivoluzione si può festeggiare a casa quando la situazione sanitaria nel paese si aggrava di ora in ora», altri interpretano in maniera diversa la decisione del governo. «Fino a ieri non è stato fatto nulla per prevenire l’aumento dei contagi. Questa scelta è politica», sostiene Hishem, che era in piazza nel 2011, mentre insacchetta la spesa poco prima del coprifuoco, anticipato dalle 20h alle 16h. Per lui la rivoluzione continua: «Il braccio di ferro tra popolo e polizia non è ancora finito, e lo vediamo oggi».

 

14 gennaio 2011, una storica immagine della folla in Avenue Bourghiba (Ap)

 

Nonostante il lockdown, mercati e supermercati della capitale restano aperti, come la maggior parte degli uffici. Qualche bar serve il caffè di nascosto, tram e taxi circolano normalmente in città. Ma più ci si avvicina ad Avenue Bourguiba, più i posti di blocco della polizia aumentano. Gli striscioni sono rari, qualcuno si affaccia alla finestra per scattare una foto.

IL VIALE SIMBOLO della rivoluzione del 2011 ieri era è vuoto, silenzioso, inaccessibile. Come non lo si vedeva da dieci anni. Il contrasto tra le immagini di quel 14 gennaio 2011 – quando la folla gridava «dégage» (vattene) di fronte alla sede del Ministero dell’Interno, emblema dell’apparato repressivo – e quelle del 14 gennaio 2021 fa discutere sui social, unico spazio di confronto per la società civile in questa giornata di festa nazionale.

Per strada, nessuno ha il diritto di oltrepassare le recinzioni che circondano Avenue Bourguiba senza un’autorizzazione del ministero dell’Interno. Nemmeno l’unico gruppo di manifestanti che osa sfidare le direttive del governo Mechichi, il gruppo dei martiri e dei feriti della rivoluzione, respinti con violenza dalle forze dell’ordine dopo aver tentato di oltrepassare un posto di blocco.

DAL 17 DICEMBRE, le famiglie delle vittime della repressione nel 2011 occupano la sede dell’Autorità generale dei combattenti della resistenza, dei martiri e dei feriti della rivoluzione e degli attacchi terroristici tentando di attirare l’attenzione del governo sulla propria sorte. Chiedono l’applicazione delle raccomandazioni pubblicate dal Comitato superiore per i diritti umani e le libertà fondamentali e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della lista definitiva delle vittime di gennaio 2011. Questa garantirebbe loro cure mediche, un sussidio economico e, non meno importante, un riconoscimento simbolico del proprio sacrificio.

La lista è pronta e include i nomi di più di 600 persone tra morti e feriti, ma il governo tunisino continua a ritardarne la pubblicazione, rimandata ieri al 20 marzo 2021.

 

Wael Karrafi, 30 anni: dieci anni fa perse una gamba negli scontri e ieri ha partecipato al sit-in di protesta dei martiri e dei feriti (Ap)

 

Riconoscere ufficialmente le responsabilità morali e giuridiche dell’apparato di repressione statale rimane una questione politica in un paese in piena transizione democratica, dove l’apparato di polizia è ancora molto influente. Proprio in rispetto delle vittime della rivoluzione, l’attivista volto delle proteste Lina Ben Mhenni, deceduta nel 2020, rifiutava l’attributo floreale di «rivoluzione dei gelsomini».

MA CHI RACCONTA la propria esperienza di ieri non può fare a meno di ricordare quella di oggi. La Tunisia affronta la peggiore crisi economica dai tempi della sua indipendenza nel 1956. «Dove sono oggi il lavoro, la dignità, la libertà?», si interroga un partecipante al sit-in dei martiri e dei feriti di fronte alle telecamere delle televisioni locali, ricordando il celebre slogan della rivoluzione tunisina.

Le stesse richieste delle rivolte di allora, cominciate con l’immolazione di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid, le ritroviamo oggi sugli striscioni dei manifestanti che da mesi scendono in piazza in tutto il paese, da sud a nord, scandendo: «thawra mustamirra», la rivoluzione continua.

Il Forum tunisino per i Diritti economici e sociali (Ftdes), una delle principali organizzazioni della società civile, ha contato 8.759 movimenti di protesta nel 2020, più di 1000 solo a dicembre.

SECONDO L’ULTIMO COMUNICATO dell’associazione «una vera transizione democratica coerente con le aspirazioni popolari e le conquiste costituzionali raggiunte richiede la garanzia di nuove politiche pubbliche, basate su più giustizia sociale e dignità per tutti i tunisini e capaci di rompere con un modello economico che svuota del suo contenuto ogni richiesta di maggior sviluppo nel paese».