Scendono in campo in Tunisia la società civile e i centri per i diritti umani per protestare contro la reintroduzione della pena di morte per alcuni reati, dopo una moratoria di 25 anni, nel quadro della nuova legge antiterrorismo approvata con una maggioranza bulgara venerdì sera dal parlamento, alla vigilia della Festa della Repubblica. Un passo che giunge, non inatteso, dopo l’entrata in vigore dello stato d’emergenza annunciato il 4 luglio dal presidente Beji Caid Essebsi. Quella che per lo speaker del parlamento Mohamed Ennaceur «è una legge che renderà più sicuri i cittadini» dopo la strage compiuta a Sousse da un jihadista dell’Isis (38 morti) e quella di marzo al Museo del Pardo (21 morti), per tanti tunisini è invece una minaccia concreta alle libertà individuali.

Proprio a Sousse ieri due uomini a bordo di una moto e armati di un fucile da caccia hanno sparato contro una pattuglia della polizia. Un agente è rimasto ferito alla testa e al petto. Poco dopo la polizia ha annunciato l’uccisione di un “terrorista” a Biserta e il fermo di 16 sospetti a Sousse, Sfax e Kasserine. L’agguato a danno della polizia potrebbe essere legato alla Festa della Repubblica. Il capo dello stato Essebsi per l’occasione ha graziato 1.581 detenuti, in considerazione anche delle pessime condizioni di vita nelle carceri tunisine. Dal provvedimento sono esclusi i responsabili di crimini come terrorismo, traffico d’armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario.

«Ci sono molte lacune nella legge antiterrorismo che potrebbero aprire la strada a gravi violazioni dei diritti umani», è scritto nel comunicato di protesta diffuso da un raggruppamento di 10 gruppi della società civile tunisina, tra cui l’associazione degli avvocati, il sindacato dei giornalisti e diversi centri per i diritti umani. Il testo approvato dal parlamento rimpiazza la legge antiterrorismo del 2003, in vigore sotto la dittatura di Zine El Abidine Ben Ali (costretto alla fuga dalla ribellione del 2010-11) e largamente utilizzata per reprimere l’opposizione. Tra i vari punti prevede la condanna alla pena di morte – assente dalla legge del 2003 – per una serie di reati di “terrorismo” che potrà essere applicata anche contro tutti coloro che uccideranno intenzionalmente persone che godono di protezione internazionale (i diplomatici) o che commetteranno stupri nel corso di un atto di terrorismo. I servizi di sicurezza potranno detenere e interrogare un sospetto senza la presenza del suo avvocato anche per 15 giorni. I danni a proprietà pubbliche compiuti nel corso di manifestazioni politiche saranno considerati terrorismo. Gli investigatori inoltre potranno utilizzare con più facilità lo strumento delle intercettazioni telefoniche nei confronti di persone che manifesteranno sostegno a presunte organizzazioni terroristiche.

Il testo è troppo vago nella definizione del reato di terrorismo e può aprire la strada ad azioni repressive contro coloro che manifestano dissenso, anche in forma pacifica, spiega la sinistra temendo che alle autorità sia data anche la facoltà di vietare proteste e raduni popolari, come quelli visti durante la rivolta contro Ben Ali. Preoccupazione condivisa anche dalle forze politiche islamiste. «Dobbiamo essere consapevoli che saranno colpiti i diritti religiosi, la libertà di espressione e le conquiste della rivoluzione», ha avvertito Sahbi Atig, un membro del partito islamico Ennahda. Da più parti si sottolinea che la legge piuttosto avrebbe dovuto prevedere provvedimenti per la riforma dei servizi di sicurezza, considerati il punto debole della lotta alle organizzazioni armate jihadiste. Su questo insiste anche l’International Crisis Group che in un rapporto diffuso poche ore prima del sì del Parlamento, sostiene che la legge senza un miglioramento dell’addestramento e delle regole di condotta delle forze di polizia non farà altro che far passare la Tunisia «da una crisi all’altra anche in conseguenza del peggiomento del clima regionale, con il rischio di finire nel caos e aprire la strada a un ritorno della dittatura». Quello che in sostanza è già accaduto all’Egitto figlio della rivolta anti Mubarak.