Dopo l’ubriacatura democratica del post-rivoluzione, è la saga fra il magnate Nabil Karoui e l’ultraconservatore Kais Saied a smuovere (e monopolizzare) le acque paludose della politica tunisina, tra mulinelli di astensione e confusione.

Nel giorno delle legislative e a un passo dal ballottaggio del 13, c’è infatti poca chiarezza sui programmi e poca volontà da parte dei tunisini di andare ad approfondire quanto proposto da ciascun candidato. Ma soprattutto c’è l’intenzione di lasciar affogare in quella palude in cui il dibattito politico del Paese nordafricano è sprofondato diritti, libertà e dignità, in cambio di un immaginifico «Stato forte». Una sorta di patto con il diavolo, insomma, che contagia anche gli attivisti. «Si deve discutere non di libertà individuali ma dei modi con cui ridare potere alle persone, in accordo con lo spirito della rivoluzione. Bisogna schiacciare il vecchio sistema che ha strumentalizzato i diritti delle donne», ci dice Henda Chennaoui, attivista ed ex giornalista di Nawaat, blog collettivo indipendente.

«La Tunisia non ha le stesse priorità che hanno i Paesi europei. Al primo turno delle presidenziali, ad esempio, molti omosessuali hanno votato per Kais Saied perché riconoscono che le riforme di cui abbiamo bisogno adesso sono altre».

E cioè quelle che consentirebbero di rompere con la vecchia classe politica e risollevare il Paese nordafricano dalla grave crisi economica che l’ha colpito.

«Senza uno Stato forte non si possono difendere i diritti. Lo dimostrano le riforme per la parità di genere, che sono rimaste su carta. La mentalità dei tunisini non è cambiata: come società civile abbiamo fallito», aggiunge. «Kais Saied non è un fanatico ultraconservatore e le femministe lo sanno. Sono consapevoli che si tratti solo di bassa propaganda. Nella rosa dei candidati, Saied è sicuramente il meno pericoloso, anche se i poteri del presidente sono molto limitati dalla costituzione».

«Changement», «cambiamento» è quindi la parola che guiderà la mano dei tunisini nella cabina elettorale. Un cambiamento che per gli attivisti deve essere culturale ancor prima che politico.

«In Tunisia non ci sono soldi e si discute della legge sull’eredità. Lo trovo paradossale», ci spiega Lamia Mechichi, artista di strada e femminista. «Cominciamo a parlare dei veri problemi del Paese, le persone stanno soffrendo».

Ma per Mounir Baatour, avvocato omosessuale e primo candidato gay alle presidenziali, nel Paese c’è chi soffre di più. «La situazione delle persone Lgbt è molto triste», dice al manifesto.

«Abbiamo contro non solo la legge, che punisce i rapporti fra persone dello stesso sesso con tre anni di reclusione, ma anche la società civile, divisa fra liberali, che sono la minoranza, e conservatori, che sono la maggioranza. Adesso rischiamo di avere come presidente Kais Saied, apertamente omofobo e convinto che i gruppi Lgbt siano finanziati da nazioni straniere. Fortunatamente, grazie ai limiti imposti dalla nuova costituzione, non potrà cambiare né in meglio né in peggio la nostra situazione».

Come molti omosessuali, Mounir Baatour, che ha deciso di appoggiare pubblicamente Karoui, spera in una vittoria del tycoon tunisino anche alle legislative.
«I sondaggi per le legislative danno in vantaggio Qalb Tounes con il 21%, seguito a stretto giro da Ennahda al 15%. Se vincesse Qalb Tounes si aprirebbe uno spiraglio per la depenalizzazione dell’omosessualità. Per noi questo sarebbe già abbastanza».