La guerra libica, fin dal 2011, non è mai stata relegata ai confini del paese nordafricano. L’escalation degli ultimi giorni ha riacceso le tensioni nei paesi vicini e le manovre di quelli solo apparentemente lontani.

Appena una settimana fa il cosiddetto Quartetto per la Libia (Unione europea, Nazioni unite, Lega araba e Unione africana) si incontrava a Tunisi per fare il punto sulla cooperazione tra le quattro istituzioni intorno all’auspicato quanto inesistente processo politico libico. Per loro la conferenza di Ghadames, prevista tra otto giorni, resta in piedi.

Sei giorni dopo il paese ospitante, la Tunisia, sigillava ancora di più frontiere già ben controllate: il ministero della Difesa ha fatto sapere di aver preso «ogni precauzione necessaria a mettere in sicurezza il confine sud-orientale contro eventuali ripercussioni». E il presidente Essebsi ne approfittava per allungare di un altro mese lo stato di emergenza in vigore ormai da tre anni e mezzo.

La crisi è più difficile da gestire per l’Algeria che con la Libia condivide quasi mille chilometri di confine. Alle prese con la mobilitazione anti-regime in tutto il paese, Algeri ha appena perso il presidente. Per ora si limita a dirsi preoccupata e invita tutti alla calma.

A muoversi di più sono i vicini meridionali della Libia, Ciad e Sudan (anche questo scosso da ininterrotte proteste anti-governative da quasi quattro mesi): venerdì i due presidenti, Deby e Bashir, si sono visti a Khartoum per accordarsi sul rafforzamento della cooperazione alla sicurezza, in particolare lungo il confine che condividono con il sud libico.

Fin qui i paesi confinanti. Poi ci sono quelli che le mani in pasta le hanno per motivi politici. E ideologici: a dettare le alleanze è lo scontro tra la rete regionale dei Fratelli musulmani e il fronte rivale. Giovedì, dopo il lancio della campagna su Tripoli del generale Haftar, anti-islamista di ferro, la Turchia ha preso la parola avvertendo del rischio di far saltare l’accordo nazionale libico.

Quello che Haftar e il premier di Tripoli Sarraj avrebbero dovuto imbastire negli Emirati arabi il mese scorso, ma mai raggiunto. Identico discorso dal Qatar, vicino ai Fratelli al pari dell’Ankara governata dall’Akp (braccio turco della Fratellanza): si corre il rischio «di ritornare nel caos e l’insicurezza», il messaggio del ministero degli esteri qatariota.

Le alleanze che dettano l’agenda regionale sul terreno si traducono nel sostegno militare e politico dell’asse anti-Fratellanza (Arabia saudita, Egitto ed Emirati arabi) agli uomini di Haftar e con l’appoggio di Turchia e Qatar alle milizie islamiste «fedeli» a Sarraj.