Due scioperi generali con 700mila persone in piazza e il sindacato tunisino Ugtt ha vinto: il governo ha ceduto e, riporta la stampa locale, ha siglato un accordo per aumentare gli stipendi dei 670mila dipendenti pubblici. Tunisi è corsa ai ripari per evitare altri due scioperi, in programma il 20 e il 21 febbraio, che come i precedenti avrebbero paralizzato il paese con scuole, uffici pubblici, trasporti, ospedali e agenzie stampa pubbliche bloccati.

Dati sugli aumenti ancora non ce ne sono. Non ne sarà affatto contento il Fondo monetario internazionale, longa manus dietro l’austerity tunisina. Secondo l’Fmi, che due anni fa ha accordato 2,8 miliardi di dollari di prestito al paese, era necessario tagliare gli stipendi pubblici per portarli al 12,5% del Pil (dall’attuale 15,5%) entro il 2020. La solita «cura», abbinata a tagli dei sussidi ai poveri, riduzione dei servizi pubblici e congelamento delle assunzioni, che in Tunisia, come nel resto dell’Africa, ricade solo sulle classi medio-basse.

Dalla rivoluzione del 2011 e la cacciata di Ben Ali ad oggi, le spese per i salari dei dipendenti pubblici è sì aumentata (da 2,25 miliardi di euro agli attuali 4,73), ma l’incremento è stato annullato dall’inflazione (nel 2018 ha raggiunto il record degli ultimi tre decenni) e dal peso della disoccupazione che colpisce per lo più le nuove generazioni (30%), impedendo loro di rendersi autonome.