In quasi settant’anni di lavori rigorosi, dal suo Anima mundi del 1955 al più recente L’ambigua dignità dell’uomo moderno (2017), Tullio Gregory non ha fatto che studiare il trapasso tra Medioevo ed Età moderna.
Un programma di ricerca vastissimo: il platonismo medievale, la costituzione delle dottrine antimetafisiche e scettiche – con i magistrali studi su Gassendi e poi su Montaigne e Charron – fino al formarsi di tradizioni atomistiche e di libertinismo erudito che alimenteranno l’ateismo del XVII secolo (si veda il «suo» celebre Teofrastus redivivus, forse il primo testo scopertamente «ateo» del pensiero moderno), la lenta formazione di un’idea di natura autonoma nelle sue leggi e nelle sue conoscenze, anche prima dell’incontro con la fisica aristotelica, la presenza della demonologia fin dentro le Meditazioni di Descartes.

MUOVENDOSI con acribia filologica tra testi latini medievali, summae e dizionari, manuali, opere a stampa e manoscritte, Gregory ha lavorato a ricostruire continuità e catastrofi di idee filosofiche, teologiche, scientifiche lungo percorsi impervi e poco battuti, divenuti, dopo di lui, cammini fecondi per gli studi. Lo ha fatto con il gusto severo della precisione e il piacere di una caccia senza preda, come titola, parafrasando Charron, un suo magnifico saggio.

Difensore di una ragione non dogmatica, che rifiuta di chiudere la ricerca in sistemi definitivi e di affermare assolutezza di principi e di valori, Tullio Gregory ha posto al centro del suo magistero l’imperativo di non essere mai instupiditi dalla presunzione di possedere la verità. Diffidente verso gli esiti delle dispute teoriche, si è astenuto dal definire in via preliminare cosa egli intenda per filosofia, «accettando al più di considerare le filosofie come modi di pensare», modi vari e molteplici, storici, condotti secondo diversi tempi, luoghi e temperamenti.

Quanto più ricca è la biblioteca dello storico, l’ampiezza delle sue letture, tanto più acuta sarà la sua intelligenza dei modi di pensare filosofici: ai testi infatti occorrerà sempre andare e ritornare, percorrerli per intero, leggerli nel loro contesto e nella loro genesi, nelle dipendenze e originalità, nei loro linguaggi, ma senza sovrapporvi logiche estranee o appartenenti ad epoche posteriori.
Una prospettiva integralmente storica, ma che non si stanca di denunciare i limiti delle periodizzazioni storiografiche e in cui non trova posto la pretesa di individuare precorrimenti e inveramenti e men che meno di delineare panorami storici in cui si alternano fioriture e crisi, tramonti e rinascite.

«Disarticolare e complicare piuttosto che unificare e semplificare appare essere compito proprio dello storico», compito peraltro fallibile e sempre rivedibile. Ciò significa anche riconoscere che «la storia, la successione temporale, non ha alcun fine, alcun senso, ma si costituisce come opera umana».

Di fronte alla pretesa di dare un senso alla storia, «il riso di Democrito – dichiarava – varrà sempre più del pianto di Eraclito; il gioioso senso di distacco, il piacere della diversità e della provvisorietà, più del dolore per certezze perdute».

Il valore della cultura sta tutto entro questi limiti, che costituiscono le sue condizioni di possibilità e anche di responsabilità. Della cultura infatti occorre prendersi cura, come primario impegno laico e civile.

NON A CASO Tullio Gregory è stato un infaticabile costruttore di strumenti per la ricerca e di istituzioni del sapere. Collaboratore dell’Enciclopedia italiana fin da ragazzo (vi entra nel 1951, a 22 anni); fondatore nel 1964, con grande lungimiranza, del Centro Studi del Cnr per il Lessico intellettuale europeo, una immensa banca dati che ha diretto per oltre 40 anni e oltre 100 pubblicazioni. Si aggiunga la partecipazione a comitati, fondazioni di studio e di ricerca, progetti editoriali (per oltre mezzo secolo è stato consigliere della Laterza per le collane di filosofia), commissioni ministeriali, persino il CdA della Rai.

E si ricordi anche la sua partecipazione al Consiglio scientifico del festivalfilosofia, in cui riconobbe una nuova «istituzione» del sapere e in cui gli piacque inventarsi quella cucina filosofica con cui si compiaceva di saldare il gusto della tavola al gusto del testo.