Pochi giorni fa a Parigi, nell’ampia place du Trocadéro, si è svolta la manifestazione Hommage aux femmes autochtones disparues et assassinées intitolata No more stolen sisters, organizzata dall’associazione Csia-Nitassinan, Amnesty International France-Amériques e Terre et Liberté pour Wallmapu a ricordo delle donne indigene assassinate le cui vite risultano disperse. L’indomani, in concomitanza alla Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni, la salle «Jean Damme» del secondo arrondissement ha accolto l’incontro Femmes autochtones des Amériques. Protectrices de la Terre.
A partecipare, le donne native provenienti dalle Americhe, pur partendo da istanze ideologiche non identiche perché rispondenti a specificità ed esigenze territoriali, si sono fatte carico di trasmettere l’urgenza della salvaguardia del territorio, dell’acqua, del suolo e del clima e di testimoniare la loro lotta per la loro sopravvivenza, da cui dipende anche la nostra. In particolare il «caso brasiliano» e «l’urgenza amazzonica» hanno sollevato la questione della tutela delle terre indigene. Secondo la costituzione brasiliana del 1988 tutte le terre indigene devono essere delimitate, a protezione delle stesse e delle popolazioni che le abitano. Il presidente della repubblica brasiliano Jair Bolsonaro, in spregio di uno dei diritti costituzionali che protegge queste terre, agisce dicendosi a favore della crescita del settore agroalimentare – favorendo lo sfruttamento di queste terre non ancora abusate. Ironizzando sul fatto che le terre indigene delimitate costituiscano una sorta di «zona zoologica protetta» e servendosi di tesi secondo cui la separazione forzata che caratterizza tali zone protette generi sacche di isolamento, il nuovo governo brasiliano si dimentica e vuole far dimenticare che la delimitazione delle terre native non è «una gabbia». Tale delimitazione ha rappresentato storicamente una vittoria per i popoli indigeni, che hanno lottato a lungo per acquisire i diritti che hanno consentito loro di proteggere la propria sopravvivenza e l’equilibrio di queste terre.
Daiara Figueroa Tukano, artista, ricercatrice e militante brasiliana del popolo dei tukano era presente a entrambe le giornate a memoria e studio delle dinamiche che affliggono l’esistenza autoctona umana, animale e vegetale nelle Americhe. In quest’occasione di dialogo, insieme a Clarisse Da Silva e a Vanessa Joseph (artiste autoctone kali’na della Guyane française), ha mostrato la tessitura che lega la terra al corpo delle donne native, in un rapporto di resistenza e temperanza che dura da oltre cinque secoli.

Il titolo della tavola rotonda a cui ha partecipato contiene le parole «territorio», «corpo» e «spirito». Come coesistono?
Questi tre termini si condensano alla luce di una lotta comune e di un sostentamento reciproco. Il 13 agosto a Brasilia si è svolta la prima marcia delle donne autoctone, nonostante le dinamiche di lotta e resistenza da parte delle donne autoctone siano tutt’altro che recenti. La resistenza è cominciata fin dall’inizio dell’era coloniale. Il legame tra il corpo, lo spirito e il territorio parte infatti da un presupposto che per i popoli autoctoni dimora invariato: noi non possediamo la terra, essa è nostra madre e noi ci impegniamo a difenderla – anche fisicamente. Le donne autoctone lottano da più di cinque secoli per la tutela del diritto collettivo (quello del territorio, della foresta e della cultura autoctona) e per la difesa del diritto individuale (quello del proprio corpo); oggi il fenomeno emerge internazionalmente per via dell’ecocidio e dei rischi per la salute globale, tuttavia per noi la resistenza è cominciata molto tempo fa.

Anche la recente manifestazione parigina indica che il fenomeno delle donne autoctone scomparse e uccise colpisce le popolazioni native…
In Brasile la cultura coloniale persiste e le donne ne sono le maggiori vittime, anche a livello simbolico. In questo senso bisogna fare i conti con le origini del Brasile: esso è figlio della violenza, di una donna autoctona violentata. La cultura coloniale si è servita della pratica sistematica della violenza per perseguitare e assoggettare i nostri popoli, partendo dalla violenza sui corpi delle donne. I popoli autoctoni del Nord America sono stati ascoltati prima di noi, sono i primi ad aver denunciato il traffico umano. Ora anche i popoli provenienti dai territori del Sud America cominciano a essere ascoltati. Ad esempio, il territorio da cui provengo, cioè l’Alto Rio Negro, è teatro di un traffico vastissimo esercitato sui corpi delle donne autoctone. Trattandosi di una regione di frontiera al confine con la Colombia e il Venezuela, ogni tipo di traffico è moltiplicato: droga, legno, minerali rari (il niobio in particolare) accompagnano il traffico di donne autoctone rapite e schiavizzate a scopi sessuali o lavorativi. Queste donne sono invisibilizzate e silenziate. Il loro sangue non scorre solamente nelle vene dei brasiliani. Il sangue delle donne autoctone era ed è sulle mani dei brasiliani.

Sin dal periodo coloniale, lo stato brasiliano ha cercato di costruire un quadro ideologico in base al quale la non integrazione nella società brasiliana da parte delle popolazioni autoctone porterebbe a una loro lenta «implosione» e a un isolamento antistorico. Può provare a commentare e spiegare le motivazioni di questo discorso?
Il discorso integrazionista è vecchio quanto l’impero coloniale e insieme a lui è cresciuto modificandosi secondo il modello del potere in auge. Per la Corona portoghese si trattava di civilizzare e di rendere le autoctone e gli autoctoni soggetti cristiani; per l’Impero del Brasile di assimilare; per la Dittatura militare di livellare le differenze. Per la politica odierna continua a trattarsi di voler integrare i popoli autoctoni, visti ancora come selvaggi, demonizzando ad esempio i loro presunti limiti tecnologici e rendendo sempre più vulnerabili i confini che proteggono i territori essi che abitano. Le popolazioni autoctone sono viste come minaccia all’unità brasiliana: mai lo stato brasiliano le riconoscerebbe come nazioni, anche perché ciò significherebbe perdere l’influenza sulle loro terre. Il tentativo d’integrazione dei popoli autoctoni ha sempre voluto dire anche l’integrazione delle loro terre. La visione positivista e capitalista secondo cui la terra possa dare, fruttare e essere sfruttata senza limiti dall’industria stenta a morire e con lei il razzismo nei confronti dei popoli autoctoni.

Come pensa possa essere protetto l’accesso alle «terre delimitate»? Quali sono i modi per segnalare e fermare il comportamento invasivo?
Lo «Statuto dell’Indiano» è stato promulgato nel 1973 e solo nel 1988 è stato riconosciuto il diritto all’identità culturale e del territorio autoctono. La delimitazione delle terre indigene ha consentito la protezione di queste terre e di coloro che le hanno abitate e che le abitano. Tuttavia l’assunto della crescita economica nazionale è andato moltiplicandosi e il paradigma importato insieme e grazie al colonialismo continua a fragilizzare le realtà autoctone. L’estrattivismo minerario avvelena i fiumi, gonfi di mercurio, e l’industria agroalimentare devasta le foreste. Per arrestare il danneggiamento sistematico dell’ecosistema è sicuramente necessaria un’auto responsabilizzazione in termini di comportamenti quotidiani. Tuttavia non è sufficiente. Le multinazionali e le banche dovrebbero cominciare a disinvestire finanziariamente sui settori industriali che affliggono l’Amazzonia: l’agroalimentare e l’energetico.

Lei collabora alla prima radio web indigena del Brasile (www.radioyande.com). Quando è nata questa iniziativa e come sta crescendo?
Rádio Yandê è la prima radio web autoctona. Ha sede a Rio de Janeiro e lo streaming è attivo dal novembre 2013. Renata Machado, Anápuáka Muniz e Denílson Monteiro ne sono i fondatori. Dal 2015 io sono corrispondente politica da Brasilia. La radio è attiva 24h/24h e intervalla la diffusione di musica contemporanea autoctona a dibattiti e notizie provenienti dall’universo autoctono brasiliano e internazionale. Il nostro pubblico proviene da quaranta paesi del mondo. La radio è indipendente: non riceve aiuti di nessun tipo, né governativi né non governativi. Per noi questa radio rappresenta un esercizio nella pratica della comunicazione, territorio da controcolonizzare.