Il percorso di Pari ma dis-pari. Un’introduzione
di Graziella Lupo Pendinelli*
Nei giorni rossi del calendario c’è n’è uno, più rosso di altri, che sollecita a riflettere sulle forme della violenza maschile sulle donne: il 25 novembre. In quel giorno del 2019 la provincia di Lecce aveva lanciato «Corti di genere», per coinvolgere le scuole nella realizzazione di un cortometraggio. Al progetto ha aderito anche il liceo scientifico «Cosimo De Giorgi», il più antico della città di Lecce. Pari ma dis-pari è il nome di un gruppo whatsapp di ragazze di quell’istituto, nato in occasione del bando.
La scuola ha raccolto la sfida e, grazie all’aiuto di due docenti, – la prof. De Donatis di Storia e Filosofia e la prof. Rollo di Lingue straniere ed esperta di Filosofie femministe –, ha promosso la partecipazione spontanea delle ragazze e dei ragazzi. Il gruppo così formato ha realizzato, in un breve percorso di studio e di approfondimenti laboratoriali, il corto che ha poi vinto il primo premio.
Dopo la vittoria il gruppo, contrariamente alla natura temporanea dei progetti, rimane insieme. Le ragazze scommettono su quella relazione, sostenute e accompagnate dalla docente Rollo che continua a sollecitarne approfondimenti, studio, dialogo e conflitti anche nel gruppo poi virtuale battezzato Pari ma dis_pari.
Con lo scivolamento coatto nella didattica a distanza il gruppo, pur se relegato alla sola modalità virtuale, ha resistito anche alle usure della situazione eccezionale e, in quei mesi, ha maturato consapevolezze e visioni politiche importanti. Tra i tanti effetti imprevisti prodotti (o agevolati) dalla DaD si è verificato – anche se non è stato ancora fatto emergere –, un inasprimento delle forme di cyberbullismo e di violenza online, che alcune denunce di alcune delle ragazze vittime hanno portato alla luce.
La circostanza ha a sua volta stimolato, a scuola, la produzione di un altro video che nelle intenzioni forse voleva contrastare la violenza, ma nei contenuti palesava corpose criticità e radicate venature di stampo patriarcale, insieme al fatto che era un vistoso plagio del video già realizzato in novembre nella stessa scuola.
Pari e dis_pari resiste ancora, le ragazze studiano intensamente anche in piena DaD e, senza prestarsi a polemiche, producono, grazie a Marilù Mastrogiovanni – giornalista e impegnata in GIuLIA –, scritti forti, critici, argomentati e densi per la rivista Scuola e Amministrazione. Il gruppo di Pari e dis_pari è oggi uscito dalla scuola. Le ragazze hanno sostenuto brillantemente gli esami di maturità e soltanto due, le più giovani, sono rientrate per frequentare l’ultimo anno.
Ci siamo incontrate in presenza, a fine giugno, presso la sede dell’associazione Le ali di Pandora a Lecce grazie alla maestra Ambra Biscuso che ci ha dato le chiavi di quel luogo politico di donne, con Enrica (17 anni, ora al 5° anno di liceo scientifico), Benedetta, Maria Irma, Anastasia, Priscilla, diciannovenni appena diplomate. Mentre Alessia, anche lei ora al 5° anno, non è potuta venire ma ha partecipato inviando un testo. Dopo un tempo senza «spazio» era necessario riportare i corpi a vibrare insieme le une con le altre.
Le ragazze non erano più solo le autrici degli articoli dei mesi oscuri del lockdown ma giovani donne dai corpi vivacissimi concentrate a riflettere e a immaginare il proprio futuro anche e soprattutto in relazione al lavoro.
Una situazione del tutto inedita. Una condizione difficile, come loro stesse hanno riconosciuto, perché priva della sicurezza blindata, anche se talvolta asfittica, della scuola e di spazi e luoghi in cui pensare e raccontarsi tra donne.
Sono arrivate insieme, per riprendere da dove avevano lasciato, spaventate e entusiaste di dover scegliere di colpo tutto il loro futuro, perché questo gli era stato trasmesso dalla scuola e dalle famiglie; ma sembravano avere le idee chiare, orientate come erano a scegliere giurisprudenza piuttosto che ingegneria.
Vi presentiamo qui, dunque, scritti di giovanissime che stanno per tuffarsi nel mondo. Parole di donne capaci di osservare coraggiosamente la realtà che le aspetta. Sono flussi di pensieri attraversati in lungo, in obliquo, in solitudine o insieme alle altre. Sono saperi acquisiti negli anni del liceo che, grazie al fuori onda promosso da una docente coraggiosa, sono diventati strumenti di lettura del mondo di fuori e possibilità di autonomia.
Incontrandosi di nuovo, forti dei propri studi, hanno tratteggiato con singolare originalità le loro priorità irrinunciabili fatte di scelte e desideri non addomesticabili. Consapevoli, ormai, che per comprendere il presente è imprescindibile la conoscenza del pensiero e della storia che costringe le donne – e la pandemia l’ha mostrato con forza – alla subordinazione, alla riduzione di sé o, addirittura, alla violenza.
Le loro parole ci forniscono un abbecedario fresco, vivace e necessario: fatto di dichiarazioni e di denunce corali della riduzione del divenire donna e dei suoi desideri. Ponendo domande, si ribellano all’asprezza di risposte assertive; senza illusioni e restando con i piedi per terra, sanno che gli spazi di parola vanno conquistati e che essere in relazione in un mondo indifferente alla disparità è difficile.
La scelta de il manifesto di farsi «luogo» d’ascolto delle parole di queste giovani donne fornendo uno spazio di confronto con altre donne–più-adulte è già una prima, piccola, risposta alle loro domande, occasione di resistenza per i loro domani.
#Donne&lavoro 35/1
Quando dico di essere femminista
di Enrica Greco
Quando dico di essere femminista (e si, capita spesso che io lo dica), le risposte il più delle volte sono sguardi un po’ confusi e persino schifati. Poi, la classica affermazione: «no, io non sono femminista, io credo nella parità». Allora, con un po’ di pazienza, spiego ogni volta che anche io sono per la parità, così come tutte le femministe. Tuttavia, il mio interlocutore non è pienamente soddisfatto e sente di dover fare una domanda, che nasconde una velata critica: «A che serve il femminismo oggi?»
Perché finché si parla di donne oppresse in Pakistan o in Arabia sono tutti d’accordo, d’altronde di fatto non godono degli stessi diritti degli uomini. Ma noi, donne occidentali, non abbiamo già raggiunto tutti i possibili diritti? Non stiamo forse un po’ esagerando attaccandoci a cose stupide? Per cosa ce la prendiamo? Per un paio di commenti? E purtroppo, a pensarla così non sono solo gli uomini, accecati da un privilegio secolare, ma anche molte donne.
Questo certamente dipende dalla cultura che, direttamente o indirettamente, la nostra società trasmette, quella del patriarcato. Una mentalità derivante da millenni di storia sessista e misogina che è ancora intrinseca nella nostra vita quotidiana, spesso senza che ce ne rendiamo conto. Abbiamo, infatti, talmente interiorizzato la misoginia e il privilegio maschile che fatichiamo a riconoscerli e il più delle volte non ci accorgiamo della violenza agita se non al suo punto più estremo.
E persino quando si riconosce che il problema è estremo, la sua esasperazione nella violenza fisica, nello stalking, nei femminicidi si cerca in qualche modo di giustificarla. Innanzitutto, si prova a far ricadere l’episodio nella marginalità della devianza psicologica: «l’uomo malato, il mostro». Se questo non basta perché il povero brav’uomo si sente comunque ricoperto di giudizi, allora si passa al dividere la colpa. Perché lei lo trascurava, lo faceva ingelosire, si vestiva in modo provocante o si rifiutava di svolgere le mansioni naturali di una donna, quelle di madre e moglie. Insomma, non solo sei stata stuprata, violentata, uccisa, ma la colpa è anche tua. La colpa è soprattutto tua, perché si sa, «un uomo ha dei bisogni», gli uomini sono fatti così, sta a noi donne capirli e assecondarli. In fondo, anche se mascheriamo le parole dure per addolcirle, siamo ancora convinti che il compito primario di una donna sia quello di soddisfare e appagare l’uomo. Vivere un’esistenza non per sé stesse, ma in funzione del sesso maschile. Come affermava Simone De Beauvoir, in fondo, siamo ancora il «secondo sesso».
E certo, la violenza esiste, ma perché creare un discorso a sé per la violenza di genere? A cosa serve giustificare tutto con il sessismo? In fondo, sono le femministe a pensare che tutto dipenda dall’odio per le donne. E invece, chi si rifiuta di trattare l’argomento nella specificità sta evadendo il problema piuttosto che risolverlo. Perché per poter aggiustare qualcosa, prima di tutto devo capire come funziona. Esattamente questo fa il femminismo nel 2020: osserva un problema, quello del sessismo, da un punto di vista specifico, analizzandolo nella sua singolarità, partendo proprio dalle cose più semplici fino ad arrivare all’esasperazione della violenza, provando, poi, a risolverlo.
Volendo schematizzare la questione, la cultura del patriarcato è come una piramide. La cima è rappresentata dai casi «isolati» di violenza fisica; a scendere troviamo gli episodi ben più frequenti di violenza psicologica, innanzitutto, e poi a mano a mano quelli più irriconoscibili che sono intrisi nella nostra cultura e presenti nel parlato di ogni giorno.
Guardandoci intorno, facendo attenzione, potremmo notare spunti di matrice sessista ovunque, a partire dalla differenziazione dei prodotti nei supermercati. Quelli maschili inneggiano a forza e potere, quelli femminili a dolcezza e sensualità. Anche gli stimoli dati ai bambini, sin dalla nascita, sono di questa natura. Nei giocattoli, nei vestiti e nel linguaggio di marketing che viene utilizzato. Anche i cartoni animati, i film, le serie tv, i libri per bambini raccontano solo una visione delle cose. La principessa che viene salvata dal principe, il ragazzo muscoloso con le spalle grandi che protegge la ragazza in pericolo, la mamma a casa presa dalle faccende e dalla vanità e il rozzo papà che porta il pane a casa. Insomma, potrebbero sembrare banalità, ma sono, invece, piccoli tasselli di un puzzle infinito, che da secoli ostruisce e impedisce la nostra libertà. Perché se il modello che osserviamo è sempre lo stesso, in una visione unilaterale, ci abituiamo talmente tanto a questa realtà che arriva a sembrarci l’unica strada possibile. Siamo cresciute così, abbiamo visto le cose da un unico punto di vista e agiamo di conseguenza, calate perfettamente nel ruolo che la società ci impone.
Qual è allora la soluzione? Basta semplicemente leggere o studiare? Forse, in alcuni casi, può essere sufficiente. Tuttavia, come recenti eventi dimostrano, la cultura non salva da stereotipi e generalizzazioni. Perché se persino uno studioso della mente umana arriva ad affermare che la femminilità di una donna si realizza solo quando essa è guardata da un uomo, immaginiamoci quale possa essere il pensiero delle masse prive di cultura.
Se tutti gli stimoli che abbiamo intorno, nelle nostre case e fuori, sono specchio di sessismo, non c’è via di scampo. C’è bisogno, invece, di una rappresentazione mediatica varia, in cui ogni individuo possa ritrovarsi. Sin da quando i bambini nascono e ricevono i primi stimoli intorno a sé, dovrebbero poter avere una visione completa sulla realtà del mondo, nella quale ci siano donne ambiziose e uomini casalinghi e viceversa. Un abbattimento degli stereotipi, dei ruoli già decisi per noi, per raggiungere una libertà propria. Questo vorrebbe dire cambiare la cultura alla base del patriarcato, rivoluzionando totalmente le immagini, le parole, i suoni intorno a noi.
Cosa resta, invece, da fare a noi che ormai siamo state tirate su e ancora viviamo in un mondo carico di pregiudizi e stereotipi? Sicuramente il nostro lavoro prima di arrivare, se mai arriveremo, a una rivoluzione della cultura è più complesso. Dobbiamo, infatti, partire da noi stesse, fare un’analisi della nostra mente e dei nostri comportamenti. Una volta riconosciuto l’agire del sessismo, in noi e intorno a noi, dobbiamo filtrare le nostre azioni per poterle liberare da questa matrice culturale di stampo sessista. Nel momento in cui comprendiamo quali dei nostri pensieri e, dunque, dei comportamenti che ne conseguono dipendono da bias cognitivi e pregiudizi di natura patriarcale, possiamo distaccarci da questo modo di pensare. Imparare, finalmente, a pensare liberamente, scrollandoci di dosso convinzioni che ci portiamo dietro sin dalla prima infanzia.
___
Enrica Greco, 17 anni, frequenta il 5°anno del Liceo Scientifico Statale «C. De Giorgi» di Lecce. Ha superato il test di ammissione a ingegneria presso il Politecnico di Milano. I suoi interessi attuali sono rivolti a ingegneria dei materiali. Vuole fare l’ingegnera.