Ci sono autori e opere che sarebbe meglio rispettare, dicendo come stanno davvero le cose che li riguardano. È il caso di Deutschland, Deutschland über alles di Kurt Tucholsky e John Heartfield (Meltemi «Biblioteca», pp. 243, euro 20,00): bene avrebbe fatto la casa editrice milanese a dichiarare che nel novembre 1991 questo libro era già stato tradotto e pubblicato da un editore romano, Lucarini (versione anastatica di un’edizione tedesca). Lucarini è stato un notevole editore, con gli uffici in via Trionfale a Roma, che lungo gli anni ha prodotto un numero impressionante di opere eccellenti e tantissimi autori di rilievo. E si capisce perché: direttore editoriale era allora Roberto Bonchio, che fino al 1985 aveva diretto gli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. Bonchio era un uomo intelligentissimo e aristocratico che nel partito comunista aveva costruito un organismo ricco e prezioso, da cui a un certo punto però, nella fase di grande crisi dell’editoria, se ne dovette andare (quando Bonchio è morto, nel 2010, ne ha scritto molto bene Gian Carlo Ferretti su una rivista della Fondazione Mondadori). Era così attento a tutto, Bonchio, che tra i libri di Tucholsky tradusse anche, sempre per Lucarini, un’altra opera notevole, ma «del ridere», Impara a ridere senza piangere (1990). E in quel caso, Tucholsky venne introdotto da uno dei nostri più acuti germanisti, Italo Alighiero Chiusano.
Ma veniamo finalmente a Deutschland, Deutschland über alles, edito nel 1929 dalla casa editrice Neuer Deutscher Verlag, e che è davvero bello e appassionante. Peccato che, oltre ad aver dimenticato di citare la Lucarini, la Meltemi abbia prodotto anch’essa una sorta di «anastatica», e proprio dell’edizione omessa – si direbbe! Basta confrontarle per accorgersi che le fotografie del 1991 sono molto più «comprensibili» di quelle contenute in questa nuova, in diversi casi davvero inguardabili.
Si tratta di una celebre raccolta di saggi, interventi, scritti brevi e veloci e talvolta più lunghi sulla Germania della Repubblica di Weimar, uscita dalla Prima Guerra Mondiale ancora con un gruppo dirigente e varie élite che avevano in mente e imponevano solo il modello filoprussiano, militaresco, legato all’idea di dovere, di onore e di persecuzione dei deboli, dei poveri e dei socialisti. L’autore era il più celebre tra i polemisti di Weimar, Tucholsky. Ma nel libro i suoi testi vengono incrociati con una ricchissima e singolare raccolta di fotografie messa insieme da John Heartfield, celebre fotografo e grafico, che lavorava su riviste, giornali, per case editrici (e per la precisione occorre aggiungere, non è autore del libro). In realtà anche lui, come Tucholsky, era tedesco. Si chiamava Helmut Herzfeld, ma aveva cambiato nome, assumendone uno d’arte alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando la Germania era diventata anti-inglese. E lui aveva voluto dichiararle la guerra di nomi.
Questo libro nel ’29 aveva anche un altro elemento di rottura. Uscì, come detto, per la Neuer Deutscher Verlag, casa editrice inventata e guidata da quel genio del comunismo (e grande protetto da Lenin) che fu Willi Münzenberg: personaggio che tra l’altro, a quanto si può capire, fu aiutato da Togliatti, che nel 1937 a Mosca lo salvò da un probabile invio a un Lager, forse su richiesta di Stalin. Ma purtroppo su Münzenberg ancora oggi si può contare solo sullo splendido saggio che scrisse Enzo Collotti su «Belfagor» nel novembre 1969. E lì venne lasciato ben poco spazio alla casa editrice, filo-comunista, ma anche vero brillante motore della Germania liberale e antinazista.
Che si tratti di un libro geniale e divertente è certo. Tucholsky mette insieme, e poi monta, varie storie di tutti i tipi sul potere tedesco dell’epoca; e ben prima che in Germania arrivasse il nazismo. Il libro parla di generali e ammiragli, di giudici, di un processo demenziale, dove a un certo punto, sorpreso, appare l’assassinato; di quotidianità urbana, compreso il traffico già terribile che caratterizzava le città; del teatro di successo che però venne stravolto, perché passava da Goethe, Dante, Brecht, Bruckner e Claudel alla «Casetta delle tre fanciulle», operina allegra e svitata; parla dei ristoranti per le élite, delle case dei ricchi ancora costruite e impostate sul passato prussiano e benpensante dei proprietari; delle donne carine esibite dagli uomini di successo con i loro pantoloncini un po’ osé. Dei gabinetti pubblici nelle nuove, grandi città tedesche, dove però la borghesia sentiva vergognosamente sconveniente fare i propri bisogni di fronte agli altri mai visti prima. Racconta gli attacchi a Erich Maria Remarque, autore del capolavoro antibellicista Niente di nuovo sul fronte occidentale: scambiato da una rivista di destra addirittura per un «inserviente di una sinagoga», lui che ebreo non fu mai. Per non parlare del ritratto affascinante e tagliente del celebre clown svizzero Grock, a cui Tucholsky dedica una pagina piena di dettagli. Grock sa quanto sia duro e difficile vivere in quel mondo tedesco, dove «i giovani crescono, arrivano i nuovi, occorre lavorare». Era la Germania uscita dalla guerra che di lì a poco sarebbe diventata nazista. E meno che mai piaceva al clown.
Ma ecco come Tucholsky stesso ha spiegato il proprio successivo racconto: «Da tutte le immagini messe insieme emergerà allora la Germania, uno spaccato della Germania». E aggiungeva però anche, senza pietà: «Ma poiché le immagini ufficiali tagliano sempre il formaggio in modo che i vermi non vengano colpiti, noi per una volta lo vogliamo fare diversamente. Ciò che si contorce durante il taglio, sono i vermi. Anch’essi sono Germania».
Eppure perfino su questo suo singolare «formaggio» il grande pubblicista arrivò a essere feroce. Fu quando arrivarono i nazisti e s’accorse che la Germania di Weimar che aveva descritto finiva per essere qualcosa di perfino accettabile. Lo scrisse all’amico e drammaturgo Walter Hasenclever nel luglio 1933, sei mesi dopo che Hitler era salito al potere. Descrivendo il suo volume del 1929, gli scrisse: «E poi, come realizzazione artistica il libro è rozzo. Debole. E fin troppo mio». Due anni dopo Tucholsky si suicidò in un ospedale in Svezia, dove si era rifugiato. E sette anni dopo ancora, lo stesso fece Hasenclever in Francia. Tutti e due con i barbiturici. La Germania era stata spezzata nello stesso modo.
Su questo grande pubblicista in Italia è stato edito pochissimo, ma nel 2002 uscì un bel libro di Susanna Böhme-Kuby, vedova dello storico della Germania Erich Kuby, anche lei notevole germanista. S’intitola Non più, non ancora, e venne pubblicato dal Nuovo Melangolo. A leggerlo oggi fa una certa impressione. A proposito di Tucholsky, Böhme-Kuby parlava dell’Italia di Berlusconi, che peraltro per molti versi non sembra molto diversa da quella di oggi. Ecco che cosa scriveva a pagina 21: «Chi scrive ritiene che l’opera di Tucholsky meriti di essere conosciuta meglio anche in Italia, e particolarmente nella situazione odierna, in quanto affronta temi e tendenze ancora di grande attualità. Lo spostamento sempre più a “destra” di un sempre meno definito “centro” politico e della società nel suo insieme, la frammentazione delle sinistre e delle diverse tendenze pacifiste di fronte alla crescente militarizzazione a livello mondiale, che provoca per l’opposizione rimozioni paralizzanti, nonché la crescente necessità di difesa dei diritti umani fondamentali, tutti questi aspetti conferiscono alla testimonianza del pubblicista politico Tucholsky una sorprendente attualità, per nulla scontata in un corpus di testi strettamente legato alla situazione storica dei primi decenni del secolo scorso».